di Dario Fiorentino

Il padre della lotta armata che non abbiamo mai conosciuto: Andrea Leoni

di Dario Fiorentino

Il primo giugno del 1985 una sentenza della I sezione penale della Corte di Cassazione presieduta da Corrado Carnevale, stimolava alcune riflessioni intorno a un processo tanto controverso all’epoca quantosconosciuto o dimenticato oggi. La questione che gli osservatori più attenti del periodo ponevano alla pubblica attenzione era la seguente: la cultura dell’emergenza, portato di dieci anni di lotta armata in Italia, stava tramontando? Da molti mesi si auspicava il superamento di tale cultura e delle prassi giudiziarie che ne rappresentavano il sintomo più inquietante; si discuteva del recupero della priorità della legge e delle garanzie a tutela degli imputati nei processi per terrorismo, del ripristino, insomma, dei costumi di quella civiltà giuridica secondo i quali un procedimento penale non avrebbe dovuto rappresentare una crociata contro gli imputati, bensì un momento istituzionale volto ad accertare la commissione o meno di un reato. 

Se fino all’inizio degli anni ’80 la fase del processo penale più duramente colpita dalla cultura dell’emergenza era stata quella istruttoria, caratterizzata da lunghe carcerazioni preventive utilizzate alla stregua di pene anticipate, dall’emissione di mandati di cattura a catena per bypassare ogni scadenza dei termini che avrebbe consentito la liberazione di un convenuto, dall’assenza di qualsivoglia forma di contraddittorio, dalla disparità di poteri tra accusa e difesa, dalla proliferazione di inchieste penali per i medesimi fatti-reato, le quali si accavallavano nel tempo e nello spazio moltiplicando i potenziali cumuli di pena, il processo oggetto di questa sentenza della Cassazione mostrava un salto di qualità nei meccanismi della repressione: il passaggio dell’epistemologia inquisitoria – nella quale le garanzie dell’imputato collassano, diventando quest’ultimo paziente inerme innanzi all’incedere monologante degli accusatori – dalla fase istruttoria a quella giudicante del processo, fase in cui, fino al 1982, la cultura della giurisdizione era riuscita a restare impermeabile a certe storture.

Anche se i giudizi dei garantisti dell’epoca restavano cauti e ponderati, la sentenza della Cassazione che annullava il giudizio di appello per associazione sovversiva e banda armata nei confronti degli aderenti delle Unità Comuniste Combattenti lanciava un contro-segnale preciso in tal senso. Secondo la Suprema Corte ogni persona doveva essere giudicata ed eventualmente condannata per i reati che aveva effettivamente commesso: non si poteva rispondere di concorso morale in un delitto per il solo vincolo associativo. La partecipazione di un imputato a un’organizzazione eversiva avrebbe dovuto essere dimostrata attraverso prove dirette con l’onere della prova sull’Accusa.

Richiamando il contenuto dell’articolo 27 della Costituzione, la Cassazione ribadiva il carattere personale della responsabilità penale, sottolineando sia come nessuno fosse punibile per un fatto altrui sia che i provvedimenti giudiziari, oltre a poggiare su prove e testimonianze, dovessero essere adeguatamente motivati, tenendo inoltre in considerazione la condotta processuale degli imputati. Per questi motivi, le condanne del giudizio di appello venivano annullate in seguito ai ricorsi dei convenuti condannati nei primi due gradi di giudizio. 

Una volta caduti i presupposti di un certo uso del concorso morale e ristabilito l’obbligo di provare e motivare un verdetto giudiziario, crollavano anche i fondamenti sulla cui base Andrea Leoni era stato condannato a 30 anni in primo grado e a 14 anni nel giudizio d’appello in quanto “capo occulto” e ideologo delle UCC. Se la sentenza di appello era stata considerata ingiusta, le polemiche suscitate dal verdetto del giudizio in Corte d’Assise, a Roma, avevano sollevato proteste molto aspre, per la prima volta anche fuori dell’alveo garantista. 

Il caso Leoni, studente di Architettura praticamente sconosciuto all’epoca dei fatti poi divenuti oggetto dei procedimenti penali, era diventato – e non a torto – un caso nazionale, il simbolo di un processo, quello alle UCC, all’epoca considerato alla stregua di un vero e proprio museo degli orrori giudiziari.

Se già la sentenza di primo grado emessa il 23 novembre 1982 aveva suscitato polemiche vivaci, il deposito delle motivazioni, agli inizi di maggio del 1983, aveva infiammato gli animi, portando diversi osservatori di quel periodo – fra i quali: Cacciari, Rodotà, Bronzini, Neppi Modona, Manconi, Ferrajoli, Boato – a sollevare pesanti censure all’impianto generale politico-giudiziario di un processo costruito su logiche di guerra e considerato il culmine dell’aberrazione delle prassi emergenziali, quasi una sorta di integrazione “istituzionale” dei canoni del processo-guerriglia sperimentato qualche anno prima a Torino dagli imputati del nucleo storico delle Brigate Rosse.

Il giorno successivo alla sentenza di primo grado, il 24 novembre 1982, il Manifesto titolava: Pene spietate per un piccolo processo. Ovvero un giudizio considerato eccessivo se si guarda alla storia delle UCC, una banda durata all’incirca un anno, fondata nel giugno 1976 e discioltasi nell’estate dell’anno successivo (anche se il giudice istruttore D’Angelo ne aveva prolungato artificialmente la durata a tutto il 1978). Una storia che si concludeva due volte: la prima con l’auto-scioglimento e la seconda col rinvio a giudizio di 31 imputati sui quali gravavano ben 60 capi d’imputazione, fra i quali associazione sovversiva, banda armata e paventate collusioni con la ‘ndrangheta calabrese.

Aldilà dei reati associativi, la contestazione dei delitti specifici ai singoli imputati sollevava un’enorme contraddizione tra l’effettiva consistenza della banda, la sua durata e il ruolo svolto nel panorama lottarmattista dell’epoca.

Come si era arrivati all’arresto dei membri delle UCC?

Nel mese di luglio del 1979, a Vescovio, in provincia di Rieti, era stato scoperto un casale di campagna all’interno del quale erano stati trovati i resti di una cella insonorizzata, alcune armi automatiche, una modesta quantità di esplosivo oltre a munizioni e dispositivi di innesco.

I proprietari del casale, i cugini Bonano, Ina Maria Pecchia e Piero Cestié, non appena tratti in arresto avevano iniziato a collaborare, permettendo così agli inquirenti di emettere diversi mandati di cattura nei confronti di persone che, all’inizio degli anni ’70 avevano militato in Potere Operaio o in altre organizzazioni della sinistra extraparlamentare.

Le loro dichiarazioni avevano permesso di ricostruire le attività delle UCC, le quali in sostanza si configuravano come un’organizzazione di piccole dimensioni, con poche armi, sprovviste di un programma politico omogeneo, i cui aderenti erano sparsi un po’ dappertutto in Italia e si riunivano di rado e che, soprattutto, erano contrari all’omicidio politico.

Tra i fatti più eclatanti attribuibili alle attività di questa banda si possono ricordare due gambizzazioni, poche rapine per l’auto-finanziamento, alcune irruzioni in sedi aziendali per distruggere i calcolatori elettronici e un paio di sequestri di persona conclusi con la liberazione degli ostaggi.

Il processo alle UCC era iniziato il 5 marzo del 1982; la sentenza di primo grado, del novembre dello stesso anno, aveva visto la condanna di Andrea Leoni e Guglielmo Guglielmi a 30 anni di reclusione, mentre altri 19 dei 31 imputati avevano subito pene oscillanti dai 18 ai 25 anni di reclusione. Una sentenza esemplare per una banda “minore”. Inoltre, pesanti pene erano state comminate anche ai cosiddetti pentiti, i quali erano stati simultaneamente creduti e non creduti, utilizzando le loro dichiarazioni per fondare le condanne e non considerandole nei casi in cui scagionavano alcuni dei convenuti, come Andrea Leoni, né tanto meno per l’applicazione degli sconti di pena previsti dall’apposita legge del 1982, ritenuta dal PM Margherita Gerunda “una ingenuità del legislatore”. 

In più, nel caso di Leoni, erano state utilizzate le dichiarazioni provenienti da altri fascicoli processuali fornite da altri due pentiti, Libardo e Donat Cattin, i quali non erano mai stati ascoltati in aula

Si era trattato, dunque, di una sentenza pesantissima, emessa proprio nel momento in cui le riflessioni sulla dissociazione e sulla eventuale forma giuridica da conferirle muovevano i primi passi; una sentenza definita “confusionaria” e che non teneva in conto una categoria intermedia tra quelle degli irriducibili e dei pentiti, ovvero quella di coloro che, come Leoni, avevano rivendicato la totale estraneità ai reati contestati1.

A ogni buon conto si trattava di una sentenza utile al dibattito sul superamento della cultura dell’emergenza, dal momento che per superarla occorreva conoscerla; e la sentenza sulle UCC si prestava bene, facendo il paio con gli atti istruttori dei processi facenti parte della galassia 7 aprile2. In questi processi contro i cosiddetti dirigenti dell’Autonomia Operaia, a causa delle assonanze linguistiche della produzione intellettuale di alcuni imputati erroneamente interpretate come sovrapponibili ideologicamente ai documenti e ai comunicati dei brigatisti, erano derivate numerose inchieste per associazione sovversiva, banda armata e insurrezione armata contro i poteri dello Stato calibrate unicamente sulla cosiddetta prova logica (“cioè la combinazione di elementi parziali, e non per forza legati tra loro, che permettono di chiarire indirettamente la realtà più di quanto riesca a farlo, ad esempio, una prova diretta”3) e sull’impiego illimitato del concorso morale per connettere la responsabilità dei presunti capi-ideologi ad atti delittuosi concreti, configurando in tal modo una responsabilità (ideologica) collettiva ed oggettiva.

La sentenza contro le UCC recepiva e integrava le prassi giudiziarie istruttorie dei processi dell’inchiesta 7 aprile, generando più di una stortura giuridica.

Analizziamo le più gravi: in primo luogo il prologo, interamente dedicato alla cosiddetta “cultura della violenza”. Questa parte della sentenza non prendeva in considerazione documenti politici delle BR o di Prima Linea né tanto meno si appoggiava a considerazioni derivanti dalla storia delle UCC: si operava qui una criminalizzazione indiscriminata dell’ideologia e delle pratiche di contestazione di tutta la sfera della sinistra extraparlamentare, qualificata come causa principale dell’avvento del terrorismo. Si stigmatizzavano situazioni eterogenee: dai corsi universitari delle 150 ore, a chi sobillava le masse denunciando “lo Stato delle stragi, della corruzione e degli scandali”, fino a chi lanciava campagne politiche contro la repressione nelle università.

Secondo il giudice di primo grado, la cultura della violenza sarebbe stata consustanziale al “terrorismo della parola che procede di pari passo al terrorismo materiale”. Leoni è considerato dalla Corte d’Assise di Roma come “il padre o tra i padri della lotta armata in Italia”. Non era accusato di aver commesso nessun delitto specifico; ciononostante la corte finiva col considerarlo “l’ideologo e il regista delle Unità Combattenti Comuniste”, “l’ideologo itinerante che porta l’eversione ed il terrorismo in campo nazionale, vertice strategico, politico, militare del movimento rivoluzionario, dell’Autonomia Organizzata”. Enfatizzare la figura di Leoni serviva a promuovere l’UCC da piccola banda periferica a “organismo di cerniera” tra BR e Autonomia Operaia e così unire in un solo gruppo, secondo il noto teorema Calogero, tutti i movimenti di lotta armata.

Secondo i giudici dunque “così il cerchio si chiude e prova e controprova, deduzione e induzione, processo di analisi a monte ed a ritroso portano ad un’unica sintesi: Leoni Andrea, ideologo del terrorismo, è uno degli elementi più importanti nella teoria e nella pratica di quell’organizzazione che è alla fonte di tutto il terrorismo nazionale del periodo”. Sulla base di quali prove Leoni aveva assunto il ruolo di padre della lotta armata in Italia che appena tre anni prima era stato attribuito a Toni Negri? In merito esiste un solo elemento indiziario, peraltro vago: una dichiarazione resa da Ina Maria Pecchia nel luglio 1979 la quale avrebbe incontrato Leoni ad un dibattito tra militanti prima che le UCC fossero fondate. Nulla di più a parte il sequestro di documenti politici dal contenuto “sovversivo” presso l’abitazione dello stesso Leoni.

Le prove risiedevano nell’incarico delle 150 ore, nella conoscenza di diversi imputati dei processi del 7 aprile e nell’essersi trasferito a Milano, “il centro dell’eversione nazionale”. Si accordava credibilità ai “si dice” di Libardi e Donat Cattin – ripeto: mai ascoltati in sede dibattimentale. Al contrario si ritenevano inattendibili i pentiti interni alle UCC quando avevano dichiarato di non aver mai sentito parlare del Leoni. 

Paradossalmente la sentenza di primo grado, nella sua abnormità, era stata più coerente di quella d’appello, dato che in questo giudizio i pentiti erano stati ritenuti attendibili, creduti, ma Leoni, benché scagionato totalmente da questi ultimi era stato condannato comunque a 14 anni di reclusione.

In primo grado invece, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia a discarico erano state ritenute come una “reticenza difensiva diretta a coprire le proprie e le altrui responsabilità per più gravi delitti”, ma anche come una “specifica chiamata in correità”. La sublimazione del paradosso secondo cui la prova esisterebbe a causa della sua inesistenza.

Leoni era dunque ritenuto un capo occulto, proprio come Toni Negri, solo che Negri era stato il destinatario di un trattamento più “rispettoso” da parte dei giudici, che apostrofavano a più riprese Leoni come “vile”, un “Riccardo cuor di leone”, uno “specialista dell’armiamoci e partite”, disprezzando ironicamente “l’astuzia del soggetto” e la sua “ipocrisia”.

Vile eppure esemplarmente punito, con un livore che arrivava al punto di spingere i giudici a chiedersi se non fosse il caso di rimandare gli atti al PM affinché questi potesse valutare l’opportunità di procedere contro Leoni per il delitto di insurrezione armata contro i poteri dello Stato.

La condanna a 30 anni in primo grado non è dipesa soltanto dal “teorema”. Vi era stata l’abrogazione per via giudiziaria dell’articolo 309 c.p, che contemplava le cause di non punibilità per il reato di banda armata per chi avesse receduto prima di commettere i delitti-scopo per i quali la banda si era costituita. La corte però aveva liquidato la questione col ricorso all’istituto del concorso di reati, sostenendo che i militanti delle UCC formando la banda armata, avessero commesso “ab origine”, automaticamente, il delitto di associazione sovversiva.

A eccezione di tre imputati, tutti gli altri erano stati condannati in quanto capi o organizzatori delle UCC, anche stavolta replicando le prassi che avevano contraddistinto l’istruttoria dei vari tronconi del 7 aprile. La sentenza liquidava in due righe il prospettarsi del problema della responsabilità oggettiva, affermando che questa altro non fosse se non “la foglia di fico del garantismo e soltanto una prospettazione di Soccorso Rosso”. 

Ultima questione: l’applicazione della legge sui pentiti. In primo grado questi non usufruivano di alcuno sconto di pena perché i giudici reinventavano la norma sulla collaborazione stabilendo che il recesso dai propositi criminosi dovesse essersi verificato prima dell’arresto. Artificio giudiziario inedito, funzionale a modulare le varie sfumature di credibilità in un’ottica esclusivamente proiettata “ad usum accusae”.

Che si sia trattato di una “violenza giudiziaria” programmata o di un “marasma generale”, come aveva detto Giorgio Bocca, resta il fatto che la storia del processo alle UCC è ancora un capitolo non scritto della storia della repressione penale e politica degli anni di piombo e dell’emergenza; un capitolo che avrebbe costituito un modello operativo per l’istruzione (e il giudizio) di altri processi penali coevi e successivi per reati di terrorismo.

Note

1 Guido Neppi Modona, Quella sentenza tutta da rifare…, Repubblica, 6-5-1984

2 Sulla questione si rimanda a Dario Fiorentino e Xenia Chiaramonte, Il caso 7 aprile. Il processo politico dall’Autonomia operaia ai No Tav, Mimesis, Law without law, 2019

3 Paolo Napoli, Il sovrano dimezzato. Anatomia di un processo politico, Rosenberg&Sellier, 2021, p. 27

Per citare questo post:

Dario Fiorentino, Il padre della lotta armata che non abbiamo mai conosciuto: Andrea Leoni,  13/2/2023, in Blog di Studi sulla questione Criminale al link: studiquestionecriminale.wordpress.com/2023/02/12/il-padre-della-lotta-armata-che-non-abbiamo-mai-conosciuto-andrea-leoni/