Di Omid Firouzi Tabar

Di Omid Firouzi Tabar
La scelta di Cutro
Se è vero che sono molteplici gli aspetti che il drammatico naufragio di Cutro segnala in riferimento alla “battlefield” in campo tra migranti in movimento e dispositivi di controllo, uno sembra emergere con particolare limpidezza: era possibile fare una scelta, piuttosto netta, e le autorità italiane hanno scelto di inquadrare il loro intervento come intervento, sicuritario, di polizia e non come intervento, umanitario, di salvataggio.
I fatti sono, a questo proposito, incontrovertibili: Nella tragica notte tra il 25 e il 26 febbraio, in seguito alla segnalazione del veivolo di Frontex, l’approccio adottato dalle autorità italiane è quello della “law enforcement”. Si agisce dando la priorità a una operazione repressiva nei confronti di eventuali “scafisti” a bordo invece di attribuirla a un’azione di ricerca e soccorso (SAR) e si procede, con conseguente assunzione di responsabilità, di mandare due unità della Guardia di Finanze invece di inviare le imbarcazioni, specializzate in salvataggio anche in condizioni critiche, della Guardia Costiera. Ciò che succede dopo è parte decisiva, insopportabile, di una cronaca mortale. Le motovedette della Finanza non riescono a raggiungere l’obiettivo per le avverse condizioni climatiche (mare forza 4), rientrano nei rispettivi porti di partenza e poco dopo avviene il naufragio di quella imbarcazione lasciata sola, in balia delle onde.
Pochi giorni dopo la tragedia il comandante della Capitaneria di porto di Crotone Vittorio Aloi mette un punto definitivo rispetto alla questione affermando che le motovedette della Guardia Costiera possono uscire anche con mare forza 8, condizioni ben più critiche di quelle della notte del 25 febbraio, e che loro non sono intervenuti perché nessuna autorità ha deciso di lanciare l’allarme SAR. Quelle vite potevano essere salvate, questo è un altro dato che, al di là delle analisi e interpretazioni sociologiche e politiche più complessive, risulta altrettanto incontrovertibile. In attesa dei risultati delle indagini aperte dalla procura di Crotone per conoscere le specifiche responsabilità di quella tragica scelta, davvero poco convincenti risultano gli insistenti riferimenti all’urgenza di combattere il traffico di persone e dunque di agire per individuare e colpire i cosiddetti “scafisti”.
Oltre alla dimensione estremamente complessa che riguarda il processo, spesso giuridicamente opaco[1], di criminalizzazione della figura dello “scafista”, non si può non osservare che una eventuale priorità assegnata al salvataggio non avrebbe in alcun modo compromesso successive fasi di indagini. Altrettanto poco convincente sembra essere l’insistenza sul fatto che da quella imbarcazione non è giunta una formale richiesta di soccorso. Non soltanto perché il veivolo di Frontex aveva già ipotizzato nella sua comunicazione la presenza di altre persone sotto coperta vista la “significativa risposta termica” e l’assenza di giubbotti di salvataggio, ma anche in considerazione di una consolidata prassi della Guardia Costiera che come principio precauzionale intendeva iniziata la fase di stress anche a prescindere da un esplicito segnale di soccorso[2].
Scivolamento sicuritario
Il soccorso dunque scompare dalla scena, nella prassi delle scelte adottate e, con una certa coerenza, dalle parole e dichiarazioni dei membri del Governo. La Premier Meloni si spinge a invitare a fare nostre le parole del Papa citandolo però soltanto laddove parla di trafficanti e omettendo del tutto i riferimenti all’esigenza di soccorrere e accogliere.
In precedenza era stato il Ministro Piantedosi a chiarire l’orientamento politico in campo, spostando l’attenzione dal tema dei (mancati) salvataggi verso le responsabilità dei naufraghi che anche se disperati dovrebbero a suo avviso evitare di partire e verso quelle degli “scafisti” indicati da lui a più riprese come il vero tema e il vero problema da affrontare. Anche dal punto di vista narrativo dunque l’esigenza di controllare e reprimere sovrasta quella di salvare e prendersi cura.
Le parole, estremamente gravi, del Ministro degli Interni non devono però sorprendere. Possono certamente suscitare rabbia e indignazione, ma non lo stupore. Non tanto perché già ampiamente abituate/i alle esternazioni del “ventriloquo di Salvini”, tra le quali spicca, per particolare tasso di disumanità, la definizione delle persone sulle navi come “carico residuale”.
Non dobbiamo stupirci perché non siamo di fronte alla rottura di una continuità precedente, siamo di fronte a una certa radicalizzazione di una tendenza alla “sicuritarizzazione” della governance dei movimenti migratori nel Mediterraneo.

Essa è particolarmente visibile a partire dal 2017 quando l’allora Ministro degli Interni Minniti promuove il Memorandum con la Libia che di fatto autorizza istituzionalmente la pratica dei respingimenti disattendendo apertamente il principio di “non-refoulement” sancito dalla Convenzione di Ginevra e il cosiddetto “codice di condotta per le ONG che attuano salvataggi al fine di limitarne la libertà di azione. Una tendenza che viene significativamente richiamata in questi giorni dall’Ammiraglio Vittorio Alessandro, ex portavoce del comando generale delle Capitanerie di Porto. Alessandro, in un’intervista a “Repubblica”, parla di un cambio di rotta politico avvenuto negli ultimi anni dove le unità della Guardia Costiera hanno cominciato a essere definite “taxi del mare”, il personale da salvatori di vite in “cinghia di trasmissione” e aggiunge, curiosamente, che “ è cambiato il clima politico, ma sono cambiate anche le regole d’ingaggio ed è cambiata anche l’immagine del Corpo e improvvisamente l’attività di salvataggio dei migranti è persino scomparsa dai calendari del Corpo”. Inoltre, indicando un ruolo progressivamente sempre più rilevante del Ministero degli Interni nelle operazioni di soccorso e di assegnazione del porto di sbarco, indica il rischio pragmatico che “non si veda l’esigenza del soccorso e resti in primo piano l’esigenza di polizia”.
Questa orientamento trova due punti di sostanziale accelerazione nei “Decreti Salvini” del 2019, contenenti un attacco esplicito alle ONG attive nel Mediterraneo e nel “Decreto Piantedosi” che, approvato dalla Camera dei Deputati 3 giorni prima del naufragio di Cutro, afferma con una certa limpidezza che il punto al centro delle attenzioni è il contrasto alla immigrazione illegale e ai soggetti che la agevolano e che le ONG impegnate in mare vanno limitate fortemente in quanto “pull factor” e ipotetici agevolatori del “traffico” nel contesto di tali rotte illegali.
Non ci interessa qui soffermarci in dettaglio sulle note smentite a tale ruolo assegnato alle ONG[3], neppure sull’assurdità di questa dichiarazione di guerra alle rotte “illegali” essendo le stesse le uniche formalmente percorribili per raggiungere l’Italia e l’Europa.
Quello che interessa è considerare con attenzione un certo continuum politico-culturale che inquadra sempre più il tema delle migrazioni come tema afferente alla sicurezza, all’ordine pubblico, al contrasto penal/repressivo e alle indagini e operazioni di tipo poliziale. Una narrazione politica e una cultura operativa che si è insinuata e sedimentata anno dopo anno nelle pratiche degli attori in campo, che squalifica il diritto alla vita e alla dignità delle persone migranti, subordinandolo ad altre esigenze di controllo e selezione. È in questo quadro di riferimento dobbiamo provare a collocare il naufragio di Cutro e la scelta mortale, mai rinnegata e disconosciuta dal Governo, di dare precedenza all’operazione di polizia della Guardia di Finanza.
Dalla terra al mare un “battlefield” sempre aperto
Riteniamo che questo “scivolamento”, già rilevato durante le fasi più restrittive della crisi pandemica nella gestione delle strutture di accoglienza, delle Navi Quarantena e dei CPR[4], possa essere rintracciato anche nelle filiere del controllo dei movimenti migratori all’interno delle nostre città.
Da alcuni mesi – e in alcuni casi proprio nei giorni in cui venivano pianti i morti di Cutro, si aprivano dibattitti sul tema dei salvataggi e si moltiplicavano rivendicazioni e appelli solidali (tra cui spicca quello lanciato da decine di sociologhe e sociologi[5]) – vengono infatti segnalate in diverse città tensioni, in alcuni casi veri scontri come testimoniano le cariche della polizia avvenute più volte in via Cagni fuori dalla Questura di Milano[6], tra Questure e Prefetture da una parte e migranti e realtà solidali dall’altra[7].
La prassi denunciata in centinaia di casi in tutta Italia riguarda molti migranti che nonostante abbiano manifestato la volontà di fare richiesta di protezione internazionale, ad esempio presentandosi in Questura, non vengono collocati nelle strutture di accoglienza, come invece tassativamente previsto dalle normative, e dunque si trovano costretti a vivere e dormire per strada per molti mesi, in attesa dell’arrivo dell’appuntamento per la formalizzazione della domanda di asilo.
Se finora e per diversi anni la critica principale – innanzitutto messa in campo dalle/dai migranti, ma anche negli studi empirici e nell’ambito dell’attivismo solidale e antirazzista – era indirizzata nei confronti dell’organizzazione e delle condizioni dell’accoglienza soprattutto dentro i grandi campi[8] e riguardava una “biopolitica dell’accoglienza”[9] strutturalmente segnata da segregazione e infantilizzazione – ora è la fruizione stessa dell’accoglienza e dunque l’esigibilità del diritto stesso che viene, nella prassi, messo radicalmente in discussione. Un “salto di qualità” decisamente degno di nota.

È utile in primo luogo ricordare che la “giustificazione” delle Prefetture, che indicano come ragione principale di tale fenomeno l’assenza di posti disponibili, sia nettamente smentita da recenti indagini[10] e dunque siamo di fronte, anche qui, a una scelta non forzata, una scelta che non possiamo non definire come politica. Inoltre colpisce il fatto che questo disconoscimento di un diritto fondamentale tende a dividere i richiedenti asilo in due distinti sottogruppi dal punto di vista dell’approccio istituzionale.
I soggetti sbarcati nei porti vengono subito inquadrati in un contesto di controllo piuttosto rigido e disciplinante, foto-segnalati all’interno degli Hotspot e immediatamente portati in strutture di accoglienza la cui collocazione territoriale viene decisa senza alcuna considerazione della volontà del soggetto stesso.
Chi invece arriva nelle città da vie alternative, quella balcanica oppure via mare, ma eludendo il passaggio per gli Hotspot, ha fin dall’arrivo in Italia un grado di libertà maggiore nel maneggiare la “trappola sociale” rappresentata dall’accoglienza, sceglie strategicamente la città dove manifestare la richiesta di asilo, ma si trova, come descritto prima, privato a lungo del diritto stesso ad avere l’alloggio, il cibo e le altre misure di accoglienza, trovandosi fin da subito iper-marginalizzato in contesti urbani spesso ostili e poco accoglienti. Parliamo di soggetti che in molti casi vanno a rimpolpare gli insediamenti informali già abitati da migranti espulsi dall’accoglienza attraverso i procedimenti di revoca oppure da migranti fuoriusciti volontariamente dalle strutture in cerca di soluzioni di vita più degne e più libere. Insediamenti informali che espongono altamente chi li abita o li attraversa a operazioni di polizia e retate, a processi di abbandono istituzionale, di stigmatizzazione e di criminalizzazione che potremmo definire più “classicamente” sicuritari, di certo diversi da quelli che caratterizzano l’approccio che caratterizza il controllo di stampo “umanitarista” paternalista, pietista e infantilizzante.
Non siamo ancora in grado di avanzare una ipotesi interpretativa solida e non vogliamo pensare che questo ritardo illegittimo nell’assegnare l’accoglienza si presenti come una sorta di punizione per soggetti che sono nelle condizioni di integrare per certi versi la richiesta di accoglienza con la rivendicazione della libertà, ma crediamo che sia una ipotesi da mettere a verifica e su cui lavorare prossimamente con attenzione.
Ad ogni modo dal mare ai contesti urbani, passando per gli Hotspot, il tentativo di controllo delle persone migranti sembra avere un’inclinatura verso il versante più autoritario e repressivo, quello dove ogni cosa è interpretata a partire dal rigido assunto che sul tavolo ci sia soltanto un problema di ordine e sicurezza.
Less “cure”, more “control”
Naturalmente non crediamo che i modelli di governance si susseguano o sostituiscano gli uni agli altri in modo netto e lineare, così come non crediamo che il modello “umanitarista” sia scomparso dalla scena.
Crediamo che gli elementi descritti fin qui possano contribuire a rafforzare l’ipotesi che il governo delle migrazioni, interne e transnazionali, sia complessivamente messo in campo attraverso un intreccio tra dispositivi “umanitari” e “sicuritari”[11] , che tale intreccio sia dinamico e a geografie variabili e che da qualche tempo ci sia un tendenziale sbilanciamento a favore di scelte e soluzioni di stampo “sicuritario”.
Preme sottolineare, per evitare con forza ogni equivoco a proposito, che non si vuole in nessun caso in questa sede alimentare la sempre più miope ipotesi della “Fortezza Europa” e di inquadrare le/i migranti come soggetti passivi, tutt’altro.
È proprio l’ostinazione delle/i migranti a mettersi in movimento e il tratto costitutivamente libero e indisciplinato di tali movimenti a porre sempre più il problema di riconfigurare, spesso irrigidire, i filtri selettivi dei meccanismi di inclusione differenziale. Neppure di fronte al gesto dalla carica repressiva più alta ravvisiamo l’intento di neutralizzare del tutto i migranti nel territorio con tattiche meramente escludenti, oppure quello di sigillare i confini con fortificazioni e blocchi invalicabili. Questo non solo perché a rendere porosi e flessibili questi “borderscape” ci sono le resistenze e contro-condotte dei soggetti in movimento, ma anche perché la ratio dei dispositivi di controllo rimane chiaramente quella di produrre, dentro logiche e tattiche di carattere “logistico”[12], soggetti funzionali alle logiche dello sfruttamento e a quelle della produzione del “nemico pubblico”, soggetti da includere in modo subalterno[13], oppure, per mantenere l’accento sulla potenza innovatrice dei soggetti stessi, in termini differenziali[14]. A ricordarcelo in questi giorni è l’insopportabile mantra dei migranti “che servono alla nostra economia in crisi” incessantemente riproposto da esponenti politici di destra e di sinistra, da sindacalisti e imprenditori, un mantra che imbarbarisce il dibattito pubblico, già di per sé povero, ma contiene un elemento di evidente realismo.
Lo scivolamento sicuritario, in mare e in terra, è quindi propedeutico alla ricerca di nuovi assetti di inclusione nel territorio ancora più inclini a favorire l’esposizione a molteplici forme di sfruttamento lavorativo e, simultaneamente, ad agevolare dinamiche di segregazione e iper-marginalizzazione dal punto di vista dell’autodeterminazione e della libertà di scelta e di movimento.
Cutro in tal senso non è un atto di crudeltà, pensarlo sarebbe riduttivo e per certi versi assolverebbe gli attori in campo da responsabilità politiche consistenti. Nel naufragio di Cutro si intravede una carica ordinatrice che contribuisce a rafforzare certi schemi, approcci e assetti più generali, confermata dalle linee guida del Decreto Sicurezza nato dal Consiglio dei Ministri svolto proprio nella cittadina calabrese che ha come fulcro la guerra ai trafficanti che d’ora in poi, come affermato dalla Premier Meloni, verranno cercati e combattuti “lungo tutto il globo terracqueo”.

Gli effetti di potere di questa tendenza, questo è ciò che maggiormente ci interessa, sono una maggiore esposizione alla sofferenza, alla violenza, al pericolo, alla criminalizzazione e, prima di tutto, alla morte. Il tentativo di questo ingranaggio, costantemente sotto pressione per via delle molteplici resistenze, è quello di produrre soggetti ancor più docili, imbrigliati, pressati anche con armi classicamente repressive, soggetti che sappiano stare al posto assegnato in una stratificazione sociale estremamente ingiusta, discriminatoria e violenta, una stratificazione sociale che trova nei processi sempre più rozzi e duri di razzializzazione un perno imprescindibile.
Questa esposizione alla morte, alla violenza, alla discriminazione intensiva e alla criminalizzazione sembra puntare a disegnare dei regimi di mobilità e di vita sul territorio che dal punto di vista dei diritti, dell’accesso alla casa e al welfare, degli spazi di libertà e autodeterminazione ricordano le formule dell’apartheid collocando istituzionalmente un settore della popolazione migrante in contesti di manifesta ed esplicita inferiorizzazione. Una costante e pervasiva pressione “sicuritaria” messa in campo con l’intento di comunicare in tutte le fase del tragitto migratorio che l’unica esistenza tollerata è un’esistenza altamente docile e disciplinata sotto la minaccia continua e incessante della segregazione, della violenza e della morte, una guerra ad alta intensità non contro le migrazioni, ma contro le migrazioni libere.
Lo spazio del diritto
Una pressione “sicuritaria” e iper-stigmatizzante al servizio di un approccio secondo il quale il numero di persone che partono, le modalità di attraversamento del mare, le dinamiche di selettività in atto negli Hotspot, il luogo dove passare l’accoglienza e il modo in cui passare tale periodo, deve rispondere rigidamente a esigenze di funzionalità logistica, rafforzate dalle note briglie del Regolamento di Dublino, quotidianamente sfidato dalla mobilità indisciplinata di centinaia di soggetti.
A proposito di normative quello a cui assistiamo è uno scenario in cui, come spesso accade, il ruolo del diritto risulta particolarmente complicato da decifrare e interpretare e questo soprattutto per via di una iper-produzione di leggi nazionali e dispositivi amministrativi che spesso si accavallano non del tutto coerentemente e a causa di un’intreccio intricato tra fonti nazionali, europee e internazionali. A complicare ulteriormente il quadro troviamo una progressivamente normalizzazione dello stato di emergenza che avvolge il governo delle migrazioni esponendo continuamente la garanzia dei diritti a deroghe spesso giustificate, per l’appunto, dalla eccezionalità del contesto.
Certo è che le garanzie contenuta nella sfera del diritto, inteso come spazio aperto di contesa tra garanzia e implementazione dei diritti e imposizione di logiche di controllo e disciplinamento, sono disattese attraverso prassi da più parti indicate come illegittime. In mare in contrasto alle Convenzioni internazionali[15], in terra, come nel caso dell’accoglienza negata, in un piano di inadempimento della legislazione nazionale[16].
Se le prassi istituzionali dell’Esecutivo tendono, non è certo una novità, a mettere in campo una interpretazione radicalmente restrittiva della sfera dei diritti, fino a violarli manifestamente, è in alcuni casi, anche questa non è una novità, il piano giurisdizionale a intervenire per “recuperare” la situazione e dunque sono i tribunali con le loro sentenze a ripristinare quella parte della legalità che in mare così in terra si occupa di vita, di diritti e di dignità della persona[17].
Un “ripristino” che però non può riportare in vita i corpi annegati per via di mancati salvataggi così come non cancella le continue sofferenze, umiliazioni, discriminazioni e violenze messe in campo dalla prassi istituzionale di stampo sicuritario dispiagata nei territori.
Per citare questo articolo:
[1] https://fondazionefeltrinelli.it/a-cosa-o-a-chi-serve-aumentare-le-pene-per-gli-scafisti/
https://www.internazionale.it/reportage/zach-campbell/2021/05/03/italia-migranti-ong-strategia
[2] https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/03/02/crotone-scaricabarile-sar-migranti-frontex-allarme-compito-italia/7082116/
[3] https://www.vita.it/it/article/2023/02/20/ong-come-pull-factor-una-bufala-lo-prova-il-decreto-piantedosi/165833/
[4] Firouzi Tabar O., Sanò Giuliana, The “double emergency” and the securitization of the Humanitarian Approach in the Italian Reception System within the Pandemic Crisis, Dve Domovini/Two Homelands, 2021
Firouzi Tabar O., Fabini G., “Criminali”, “vittime”, “untori”: Leggere il governo delle migrazioni attraverso la Pandemia, in “Studi sulla Questione Criminale”, Carocci, Roma, 2022
[5] https://cryptpad.fr/form/#/2/form/view/-U5pGPBmH5iUvAVeJ9SrgUa4R-NfhTWVCK1qZMdkVsU/
[6]https://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2023/02/22/news/migranti_richiedenti_asilo_milano_e_ancora_ultimo_in_coda_laccesso_alla_procedura_per_la_protezione_internazionale-389015923/
[7] Tra le varie iniziative a Milano e a Torino decine di associazioni hanno indirizzato lettere di denuncia alle rispettive Prefetture e a Treviso i migranti stessi si sono accampati davanti alla Prefettura per protesta finchè hanno ottenuto l’assegnazione dell’accoglienza.
[8] Pinelli B., Campi di Accoglienza per Richiedenti Asilo. In Riccio Bruno (a cura di), Antropologia e Migrazioni. Roma: CISU, pp. 69-79, 2014
Campesi G., Confinati sulla soglia: Etnografia dei centri per richiedenti asilo in Puglia. In Pannarale Luigi (a cura di), Passaggi di frontiera: Osservatorio sulla detenzione amministrativa degli immigrati e l’accoglienza dei richiedenti asilo in Puglia. Pisa: Quaderni dell’altro diritto, Pacini Editore, 2014
Firouzi Tabar O., L’accoglienza dei richiedenti asilo tra segregazione e resistenze: un’etnografia a Padova e Provincia. In Fabini Giulia; Firouzi Tabar Omid; Vianello Francesca (a cura di), Lungo i confini dell’accoglienza. Migranti e territori tra resistenze e dispositive di controllo. Roma: Manifestolibri, 2019.
[9] Rozakou K., The Biopolitics of Hospitality in Greece: Humanitarianism and the management of refugees, American Ethnologist, pp 562-577, 2012.
[10] https://www.openpolis.it/il-sistema-di-accoglienza-dei-migranti-e-tuttaltro-che-al-collasso/
[11] Agier M., Ordine e disordini dell’umanitario. Dalla vittima al soggetto politico. In “Rifugiati”, 5, 49-65, 2005
Fassin D., Humanitarian Reason. A Moral History of the Present, University of California Press, Los Angeles, 2012
[12] Altenried M., Bojadžijev M., Höer L., Mezzadra S., Wallis M., Logistical Borderscapes: Politics and Mediation of Mobile Labor in Germany after the “Summer of Migration”, Duke Universuty Press, 2017.
[13] Ambrosini M., Lodigiani R., Zandrini S., L’integrazione subalterna. Peruviani, eritrei e filippini nel mercato del lavoro italiano, Quaderni ismu, 3, 1995
Sbraccia A., Pericolosi e funzionali, gli stranieri nel pensiero socio-criminologico, Giappichelli Editore, Torino, 2020
[14] Mezzadra S., Neilson B., Border as method, or, the multiplication of labour. Durham, Duke University Press, 2013
[15] https://www.redattoresociale.it/article/notiziario/soccorso_in_mare_tutte_le_criticita_del_nuovo_decreto_ong_
[16] https://www.asgi.it/asilo-e-protezione-internazionale/milano-pericoloso-e-impossibile-chiedere-asilo-le-associazioni-chiedono-lintervento-dellunhcr/
[17] https://ciaconlus.org/it/news/dettaglio-news/richiedenti-asilo-hanno-diritto-a-documenti-e-accoglienza-tribunale-da-torto-a-questura-e-prefettura-ciac-vittoria-dei-diritti
https://tg24.sky.it/cronaca/2023/02/13/migranti-ong-decreto-sentenza-tribunale-catania