Pubblichiamo il post di Enrico Gullo (Universitá di Pisa), contributo per la blog serie #CallMeCOVID19 di Studi sulla questione criminale online. Sul nostro blog potete trovare tutti i post pubblicati fino ad ora.

Ringraziamo Enrico per il post e buona lettura!

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Un tentativo di epistemologia politica su Covid-19

di Enrico Gullo

Alla definizione di cosa sia un virus concorrono in questo momento storico la mappatura del suo genoma, la sua classificazione tassonomica in base alle analisi chimico-fisiche che ne descrivono il comportamento riproduttivo, gli effetti nell’interazione con gli organismi ospiti umani e non umani, il comportamento statistico del contagio. Di questi quattro aspetti del virus, quello che prevale nel discorso pubblico è l’ultimo, la costruzione del dato epidemico su base statistica, per almeno due ovvie ragioni: prima, la competenza numerica di base supposta nel grande pubblico dell’informazione; seconda, la duttilità discorsiva e politica del tracciamento statistico del virus. Credo che in realtà sia il fatto più difficile da enucleare rispetto al virus, perché nonostante sia più facilmente comunicabile per dare un senso (anche alterato) delle proporzioni epidemiche, porta con sé una quantità di variabili sociali, economiche, logistiche, politiche che influenzano direttamente la costruzione del dato.

Il punto naturalmente non è l’affidabilità del dato: per forza di cose una stabilità del dato si può dare soltanto a epidemia finita; si tratta piuttosto dell’analisi di una tendenza che aiuta contemporaneamente a testare la diffusione del virus e a verificare la tenuta dei sistemi sanitari. I contorni di questo approccio statistico alla medicina sono stati ignorati per molto tempo dagli umanisti come dai sistemi di istruzione, che timidamente hanno introdotto nei manuali scolastici degli ultimi vent’anni qualche ridotta riflessione sul cambiamento di paradigma che ha trasformato in modo evidente il volto delle discipline evoluzionistiche come di quelle mediche. Come la tassonomia è passata dalla storia naturale alla biologia, con tutto quello che comporta in termini di separazione dei campi tra discipline del vivente e discipline del non vivente, alla stessa maniera la statistica – già abbondantemente in uso anche nello studio delle popolazioni organiche – si è reinnestata in campi a cavallo tra medicina e biologia in subordine a un paradigma unificante evidence-based che approfondisce i processi di quantificazione dei campi di ricerca in questione.

Quindi abbiamo una questione epistemologica in ballo: la costruzione del dato di tendenza è largamente dipendente dagli strumenti di misura adottati – di conseguenza anche dai protocolli di raccolta, primo fra tutti la soglia stabilita per la verifica al tampone a sua volta subordinata al costo del tampone, alla sua effettiva produzione – la Corea del Sud aveva già affrontato l’epidemia di MERS, per esempio – e alla disponibilità di spesa del sistema sanitario che stabilisce la soglia. La costruzione del dato incontra quindi un primo ostacolo politico alla sua realizzazione, costituito non solo da delle scelte, ma dal fatto che queste scelte non sono omogenee né per le aree nazionali, né per le aree regionali, a seconda del sistema amministrativo vigente.

Oltre agli strumenti di misura adottati, a contribuire alla costruzione del dato – perché contribuiscono materialmente alla diffusione del virus – intervengono i sistemi logistici, cioè in definitiva l’organizzazione socioeconomica delle aree che più facilmente sono state soggette all’infezione: la facilità di spostamento in territori a più alta densità di scambi e contatti come la macroregione padana o quella di Wuhan ha favorito una più rapida trasmissione di un virus che, allo stato attuale, sembra avere come principale caratteristica quella di essere molto rapido a diffondersi. Una riflessione che al momento mi pare mancare è non tanto sul fatto, ma sul perché sia così rapido a diffondersi. Correlato a questo problema, ma non necessariamente in rapporto di causazione, mi pare che stia l’inquinamento delle aree maggiormente soggette, che potrebbe essere intervenuto come fattore immunodepressivo; va però ricordato che se anche questa implicazione esistesse starebbe in subordine al ruolo delle reti logistiche – o il Sulcis e l’ILVA sarebbero state le aree a maggior incidenza di casi. Gli spostamenti transnazionali rapidi naturalmente sono da considerarsi tra i fattori di contagio e contemporaneamente tra gli elementi della costruzione del dato di tendenza.

Intervengono infine le misure adottate sul piano disciplinare e sul piano terapeutico: se la rete logistica che consente il transito di merci e forza-lavoro è un fattore di contagio, la sua interruzione (anche non correlata alle misure di emergenza) lo frena; il fatto che i casi registrati a Firenze fino a questo momento siano in proporzione piuttosto bassa anche rispetto ai casi lombardo-veneti di qualche settimana fa è probabilmente anche da legare all’incidente sulla linea Milano-Bologna; mi aspetterei probabilmente un aumento dei casi su Roma, ed eventualmente dovesse aumentare di molto la curva del contagio in Toscana mi aspetterei da lì – quindi da sud, stavolta, e non da nord – la traiettoria della trasmissione. Negli ultimi giorni naturalmente il flusso dei rientri dal Norditalia al Sud determina un altro vettore che svela a sua volta funzionamenti socioeconomici che preesistono la diffusione del virus. L’attendismo o l’interventismo dei provvedimenti di blocco anche interno fanno il resto: estendere in pochi giorni il decreto al territorio nazionale interverrà sicuramente sul contenimento anche del dato – concorrerà insomma alla definizione della capacità di diffusione del virus. Sul piano terapeutico si è detto: non solo le pratiche di verifica e diagnosi, ma anche quelle terapeutiche sono dipendenti dalla regionalizzazione dei servizi sanitari e seguono quindi disponibilità economiche, messa a disposizione della forza-lavoro, qualità delle strutture sanitarie – anche in questo la costruzione tempestiva di ospedali temporanei a Wuhan è significativa rispetto alla disparità economica che interviene nella costruzione del dato.

Quindi, oltre alle condizioni di partenza e alle scelte che possono contrassegnare differenze tra l’eurozona e i paesi asiatici, Cina in testa; oltre alle differenze, rimaste completamente inevase, tra i paesi euroamericani del nord a capitalismo avanzato (e ci sarebbe anche da valutare il ruolo dell’OMS nella situazione globale); oltre alle similitudini tra paesi appartenenti o da poco usciti dall’eurozona (fino a una settimana fa Paesi Bassi e UK non differivano particolarmente per le intenzioni sulle misure da adottare, sebbene Johnson abbia maggiormente marcato politicamente la propria posizione) e paesi come gli Stati Uniti d’America, vanno considerate anche le differenze tra le misure adottate all’interno della stessa eurozona, Persino in Germania e in Italia le scelte sono state differenti fra loro, e al loro interno stesso intervengono fattori legati alla regionalità del sistema sanitario; questo può consentire decisioni indipendenti che producono effetti diversi, posto che specialmente in condizioni di emergenza la centralizzazione ha l’ultima parola – come hanno dimostrato i decreti d’emergenza italiani. All’eventuale relativa indipendenza regionale dei sistemi sanitari si affiancano anche più direttamente, appunto, le necessità del sistema produttivo, delle sue concentrazioni e dell’addensamento delle reti logistiche che lo sostengono. Queste esigenze hanno un ruolo primario contemporaneamente nella diffusione materiale del virus e nell’accertamento della sua capacità di diffondersi, di ammalare e di dare la morte.

Quello che consegue da tutte queste cose è che sia la mortalità del virus sia la sua rapidità di contagio dipendono da un aspetto più strutturale relativo alla raccolta delle informazioni e alla capacità di intervento e tenuta per ostacolarne la diffusione. Le caratteristiche del virus che vengono usate maggiormente nel discorso pubblico, quelle che ci danno una carta d’identità del virus, sono anche quelle maggiormente legate alle dinamiche già in atto nel globo; ci restituiscono quindi una fotografia contemporaneamente del comportamento del virus e del mondo nel quale si è mosso. Di qui in poi dovrebbe intervenire la politica: non soltanto quella istituzionale e dei governi, ma anche quella di classe, delle organizzazioni sindacali di base e confederali, dell’associazionismo, dei movimenti. Mi sembra infatti che emerga un di più di politico, da questa osservazione della potenza e dei limiti della definizione statistica del virus, che sarebbe perfettamente utilizzabile (e che sta in parte già venendo utilizzata): è in questa definizione del virus che si apre il margine ampio di discrezionalità politica basato anche sulle diseguaglianze globali, il calcolo delle scelte su cosa si può bloccare e cosa no in base alle esigenze del sistema produttivo e riproduttivo; per converso, si apre anche il campo del conflitto sulle scelte da operare. Non tanto sulle scelte di disciplinamento sociale, per almeno tre motivi.

Primo: che se è vero quanto detto sopra, le operazioni di disciplinamento e controllo sociale non sono in posizione di causa, ma di conseguenza; non di costruzione dell’emergenza, ma di gestione; non mirano alla repressione, ma all’organizzazione; la posta in gioco è mantenere in equilibrio i danni alla popolazione, mantenere in piedi il sistema produttivo di sussistenza e salvaguardare i profitti. Il secondo motivo: che come si è già osservato nel caso delle emergenze terrorismo, tenderanno poi ad allentare, certamente lasciando dietro di sé degli strascichi che sono però quelli funzionali ad aggiornare il funzionamento dei complessi statal-economici alla situazione globale. Ciò che il capitalismo cerca e che lo stato sostiene non è un carcere a cielo aperto, ma una disciplina di ripartizione funzionale della produzione e della riproduzione. Terzo, perché da tutto questo consegue che lo stato di eccezione in cui viviamo è la regola, e può essere conteso solo producendo il vero stato di eccezione. Non è cioè una novità l’uso di forze di polizia o la loro immissione massiccia per il governo dell’emergenza, né era imprevedibile; è sicuramente preoccupante il fatto che in questo contesto la priorità degli Stati Uniti e della NATO sia di procedere con esercitazioni militari sul territorio europeo; ciò che invece mi pare rilevante è il calcolo di chi sia sacrificabile e chi no, quali comparti della produzione debbano rimanere in piedi e a quali condizioni, il di più di lavoro di cura richiesto a chi se ne occupa, il di più di lavoro medico richiesto pur di non fare assunzioni, quali sono i soldi che devono essere messi a disposizione e quali devono essere saldamente lasciati in mano di chi li possiede o di chi li accumula.

Penso che in fin dei conti la biopolitica consista in questo, nella valutazione degli effetti e dei presupposti politici nella costruzione della verità, molto più che nella demistificazione della verità; è un lavoro complesso e faticoso, ma credo possa dare i suoi frutti. Se ci hanno commosso le rivolte carcerarie di questi giorni, la ribellione vitale alla condanna al contagio che esprimevano insieme all’insubordinazione operaia – di quel comparto della produzione e della logistica spesso dimenticato negli scorsi decenni – e la denuncia dell’ancora una volta iniqua distribuzione del lavoro ospedalizzato e del lavoro di cura femminilizzato nel contesto emergenziale; se questo è ciò che ci interessa, vanno valutate due cose. La prima, è che se lì è la Rodi su cui tocca saltare, e lì che tocca chiedersi chi sta pagando l’equilibrio impossibile tra la nostra salute e sussistenza e i profitti dei pochi padroni che determinano l’attivazione o meno delle reti logistiche che sono, al tempo stesso, reti di contagio. Che si slaccino le corde del finanziamento pubblico, dallo stato italiano alle istituzioni europee sovraordinate, che si parli di nuove assunzioni nella sanità, che si parli di quantitative easing, che si parli di fare nuovo debito pubblico, dovrebbe far pensare al fatto che questa crisi, ancora una volta, è stata prodotta da aziende private, che riorganizzano il territorio globale a loro necessità, e che intervengono pesantemente anche sulla definizione dei tempi e dei modi di risposta al contagio. La seconda cosa che va considerata è che se ci interessa tutto quel vitale rifiuto di lavorare in condizioni igieniche pietose, o di sovraccaricarsi di lavoro di igienizzazione per portare avanti la produzione a spron battuto, o di morire sepolti tra le mura di carceri o centri di accoglienza, bisognerà dirsi che questa vita al momento non si può accogliere nelle attuali organizzazioni politiche. Quelle riformiste come quelle rivoluzionarie dovrebbero avere la pazienza, proprio in questo momento, di formulare con chiarezza un programma fatto di blocco dei licenziamenti, quarantena a stipendio intero pagato dalle aziende, rifinanziamento del sistema sanitario e un reddito di sussistenza per chi si ritrova senza un padrone che debba socializzare i profitti accumulati, condizioni di lavoro tutelate e protette dal punto di vista sanitario per quei comparti produttivi e riproduttivi che non possono essere interrotti (penso per esempio ai 35 addetti della fabbrica di macchine ventilatrici per la terapia intensiva che sta quadruplicando la produzione interrompendo le commesse dei 72 paesi dei quali è fornitrice), requisizione delle strutture sanitarie private senza previsione di rimborso, amnistia immediata, requisizione di abitazioni sfitte. Soprattutto, dovrebbero aver chiaro che tutti questi punti sono collegati, e che la forza che può imporre queste condizioni può nascere soltanto dal rapporto di forza di chi può interrompere la produzione, la riproduzione e il transito di merci – interrompere i profitti dei privati e consentirne l’uso per la pubblica utilità.

E non dovrebbe essere che l’inizio, perché se qualcosa emerge di chiaro da questo spazio bianco nel quale mi sono collocato, leggendo anche troppo più del dovuto in questi giorni, per il misero tentativo di epistemologia politica che faccio (certamente pieno di errori e inesattezze da correggere e colmare); se c’è qualcosa che è chiaro che non può e non deve tornare alla normalità del suo disfunzionamento, è che sono determinate reti di interconnessione legate ad altrettante reti di estrazione, legate ad altrettante reti di sfruttamento e di rottura di equilibri ecologici e sociali che hanno determinato l’insorgenza della pandemia, che l’hanno suscitata, facilitata, accolta, e che ora si trovano a gestirla.

 

Per citarlo:

Gullo, E. (2020) Un tentativo di epistemologia politica su #Covid-19. in Blog Studi Sulla Questione Criminale [online]. Disponibile al seguente link: https://wordpress.com/post/studiquestionecriminale.wordpress.com/2266