Riceviamo e pubblichiamo la seconda parte del contributo di Veronica Marchio (Università degli Studi di Bologna) sulla misura di “sorveglianza speciale”. In questa seconda parte verranno ipotizzate alcune tendenze attuali in merito all’utilizzo della misura di prevenzione.

Ringraziamo Veronica e buona lettura!

Sorveglianza speciale: usi tradizionali e sperimentazioni politiche (2°parte)

di Veronica Marchio

Introduzione

L’uso della sorveglianza speciale risponde a una duplice logica nel nostro ordinamento.

La prima logica è strettamente legata a quello che possiamo definire come uso ordinario della misura. Esso è rispecchiato dall’intervento sulle classi di pericolosità più selezionate: microcriminalità contro il patrimonio, spaccio e uso di sostanze stupefacenti, reati che fanno da contorno ai predetti. In questo caso la misura sembra somigliare effettivamente a un terzo binario della punitività, perché il proposito degli organi richiedenti e degli organi applicanti è sopperire, quasi come se si trattasse dell’ultima possibilità a disposizione, all’inutilità della pena o di altre misure sanzionatorie, agendo in modo deterrente e frenante la pericolosità del soggetto; quest’ultimo necessità di una particolare vigilanza prescrittiva che avrà però come effetto una sua più spiccata deviazione secondaria. La misura, che arriva spesso alla fine di un’escalation criminale, viene descritta dai giudici della prevenzione come un circuito sanzionatorio a sé, stante la continua necessità di sottolineare la differenza tra prevenzione e repressione dei reati. Per queste classi di pericolosità lo scopo è dunque quello di incapacitare il soggetto perché non ponga in essere certi comportamenti: frequentare certi soggetti pericolosi, porre in essere o tentare reati. Una funzione di prevenzione speciale negativa (Pavarini 2006).

La seconda logica risiede nell’uso eccezionale che della misura viene fatto a seconda delleopportunità e necessità politiche e di controllo contingenti. La pericolosità che ostacolerebbe la sicurezza e tranquillità pubblica è categoria così indeterminata da poter essere riempita in modo del tutto discrezionale, presentandosi talvolta come un «congegno che sia fatto per trasformare una sfuggente asocialità in reato» (Bricola 1975, p. 890). Questi casi eccezionali sono legati a ipotesi di reato contro l’ordine pubblico, a comportamenti afferenti al «disordine urbano», nonché talvolta a illeciti amministrativi. Lo stile di vita, la personalità e condotta sociale del proposto, più che la gravità degli elementi di fatto, sono i principali fattori che sorreggono il giudizio di pericolosità. Le misure sembrano quindi colpire, in questi casi, manifestazioni di dissenso e più genericamente modi di vivere che risultino scorretti secondo i criteri dell’etica dominante. Qui il rapporto tra sistema penale e prevenzione si esplica nell’uso delle misure di prevenzione dove le agenzie penali non potrebbero arrivare a esercitare quel livello di coercizione voluto. Difatti spesso le ordinanze vengono rigettate dai giudici, proprio perché si fondano su mere segnalazioni di polizia. Ciò non significa ovviamente che le segnalazioni di polizia non siano di per sé sufficienti a enucleare la pericolosità ai fini della prevenzione, ma che il giudice faticherebbe maggiormente a fondare una legittimazione giuridica dell’eccezionalità. In questo ambito sarà certamente più marcato l’aspetto che caratterizza il sistema di prevenzione come cinghia di trasmissione di informazioni sul soggetto, in quanto maggiore è la discrezionalità e minore il collegamento con il reato. Possiamo dire che qui la risposta di prevenzione alla domanda sociale condizionata che chiede un rafforzamento dell’ordine pubblico, è ideologicamente più opportuna, politicamente più qualificata di una risposta puramente repressiva. Non importa che la funzione preventiva non venga poi esercitata o sia inutile, perché, come nel caso della finalità rieducativa della pena, l’importante è che sussista in termini ideologici (Pavarini 1975). L’uso speciale sembra essere diretto a finalità di prevenzione generale positiva e negativa: vuole rinforzare, rispetto alla società allarmata, certi valori, vuole fungere da deterrente per coloro che, come i proposti per la misura, potrebbero rientrare in quella classe di pericolosità.

L’intervento in situazioni eccezionali produce processi di criminalizzazione (primaria e secondaria) e sperimentazioni politiche in assenza di un effettivo collegamento con un fatto di reato. In questo caso si può effettivamente parlare di misure di prevenzione ante, sine, preater delictum, nonché creatrici di delitto. Nei casi ordinari invece, la forte connessione con il reato e le altre misure sanzionatorie, sembra condurre a una validazione del passato criminale e all’enucleazione di un giudizio di pericolosità fondato certamente sul pericolo di recidiva, ma imperniato su fatti passati, dando l’idea di un intervento effettivamente post delictum.

Cosa significa essere pericolosi nelle ordinanze di sorveglianza speciale?

L’analisi delle ordinanze di sorveglianza speciale è in grado di dar conto dell’ipotesi teorica per cui il concetto di pericolosità sociale ha una funzione storica e strategica evidentemente selettiva dei comportamenti che minano le fondamenta della sicurezza e dell’ordine sociale.

È il criterio dell’allarme sociale (la cui costruzione giuridica emerge nel 1975 con la legge n. 152, conosciuta come “legge Reale”) a orientare la selezione giudiziaria delle classi di pericolosità. Quest’ultima avviene sulla base del grado di allarme sociale che un tipo di comportamento o reato suscita o si presume che susciti nella società. Ed è esattamente su questo allarme che viene costruita la categoria di tranquillità pubblica. Sembrerebbe a tutti gli effetti che l’allarme sociale funga da criterio di proporzionalità tra l’opportunità della misura e la pericolosità espressa. I discorsi del giudice vanno a dare spessore alla categoria, riempiendola di significato e fornendo una precisa rappresentazione di quali siano le condotte allarmanti.

Si può parlare a tal proposito di processi di selezione ma anche di processi di non selezione delle classi di pericolosità. L’ambito privilegiato di applicazione delle misure, come anticipato, è quello della micro-criminalità contro il patrimonio (con diversi livelli di gravità del fatto) e per lo spaccio di sostanze stupefacenti: una criminalità di strada, che commette diversi tipi di reato tutti ruotanti attorno allo scopo di trarre lucro dalla condotta, col fine di vivere con i proventi dell’attività illecita. Pavarini (1975, p.113) definisce queste come «antiche devianze», praticate da criminali tipo e tradizionalmente riconosciuti come tali.

Le misure riguardanti invece i reati contro l’ordine pubblico – come la resistenza a pubblico ufficiale, l’invasione di edifici, la manifestazione non autorizzata, il getto pericoloso di cose, le accensioni ed esplosioni pericolose e così via – o altri tipi di condotte non afferenti alla microcriminalità ma risultanti in illeciti amministrativi, sono meno numerose e il giudice, quando ci sono delle richieste, tende a rigettarle; è comunque rilevante che sussista un tentativo di utilizzo da parte degli organi inquirenti e di polizia.

Le classi di pericolosità che non vengano quasi mai selezionate sono quelle legate a reati d’impresa. Bricola (1975) definisce questo processo di non selezione come esito della sussistenza di «immunità sociali» e «privilegi»1. Un’«incompatibilità storica» (Pavarini 1975) tra la prevenzione e la criminalità dei «colletti bianchi» (Sutherland 1949; Melossi 2002). Un’incompatibilità anche con i reati ambientali o riguardanti la sicurezza sul lavoro; marginale, paradossalmente, è anche l’utilizzo per classi di pericolosità qualificate di tipo mafioso e associativo. È evidente dunque la tendenza a non includere queste classi di pericolosità dentro l’alveo della sicurezza pubblica, e quindi a non considerare certi soggetti e condotte come socialmente pericolose. A fronte di una maggiore gravità del fatto – anche in termini delle sue conseguenze su una fetta maggiore di collettività – le condotte appena menzionate paiono non essere considerate dai giudici, dalla procura e dalla questura come destanti preoccupazione e allarme sociale. Una parziale spiegazione potrebbe anche derivare dal fatto che questi tipi di reato sono più facilmente rientranti dentro il cosiddetto «numero oscuro» (Bandini et al. 2003) reati meno denunciati, meno rintracciabili, non di strada e perciò considerati meno allarmanti. Condotte dunque perseguite in misura minore anche sul piano penale, laddove il precedente penale, insieme a quello di polizia, è l’elemento di fatto che maggiormente influisce sull’affermazione di pericolosità.

Ci sono infine delle formule stereotipate utilizzate dai giudici della prevenzione per affermare la positività del soggetto al test di pericolosità sociale. È necessario sottolineare che queste formule sono esclusivamente legate ai casi ritenuti più allarmanti e legati alla micro-criminalità del patrimonio e dello spaccio di sostanze. Essere pericolosi significa veder espresso un giudizio negativo in ordine alle proprie scelte future, e quindi un sindacato sulle loro premesse (Martini 2017, p. 224). Incapacità al sacrificio, insensibilità ai richiami normativi ed etico-sociali, condizione familiare e formazione culturale, relazioni e frequentazioni sociali e condotta sociale, situazione lavorativa e reddituale. Uno scandagliare il piano dell’interesse egoistico, nonché la «carriera morale» del soggetto che è qui a tutti gli effetti un homo criminalis più che un homo penalis.

2. Sorveglianza speciale e discrezionalità decisionale

Nonostante si potrebbe pensare che la sorveglianza speciale, in quanto misura giudiziaria, sia uno degli strumenti preventivi che maggiormente tutela i diritti e le garanzie del soggetto che subisce il procedimento di prevenzione e dell’eventuale sorvegliato, in realtà essa si presenta come una delle misure più spiccatamente discrezionali, e non solo rispetto alle «prescrizioni» imponibili al sorvegliato (la cui concreta gestione è affidata agli organi di polizia). La misura, con il suo procedimento applicativo, è infatti anche specchio di un particolare rapporto che viene a instaurarsi tra gli organi amministrativi di polizia e i giudici della prevenzione. Questo rapporto si traduce concretamente in una certa selettività nella scelta delle condotte da ritenersi pericolose e allarmanti. Si fa qui riferimento al concetto di selettività in relazione alla discrezionalità di polizia (Bertaccini 2009). Per quanto in questo ambito preventivo/punitivo la concreta selezione delle situazioni e dei soggetti pericolosi non è operata solo dagli organi di polizia, ma dallo stesso legislatore e dagli organi giudiziari che applicano o meno la misura, possiamo però anche qui intendere il concetto nel senso dell’esercizio di una funzione sociale e politica. Ciò a maggior ragione se le segnalazioni, i precedenti e i controlli di polizia, sono una delle principali fonti del giudice della prevenzione nella valutazione di pericolosità e nella scelta di applicare o meno la misura.

In altre parole, in fattispecie normative come queste, dove l’apprezzamento degli organi di polizia è centrale, viene minata la stessa capacità di imparzialità del giudice, il cui giudizio, in assenza di parametri normativi tassativi, sarà per forza di cose legato ai suoi apprezzamenti discrezionali (soprattutto perché a dover essere posto in essere è un giudizio prognostico su possibili comportamenti futuri). Il giudizio di pericolosità si presenta infatti come una riesamina di tutta la vita criminosa, deviante, personale e sociale dell’individuo; una ricostruzione della sua carriera complessiva. Ciò fa emergere che il procedimento preventivo si presenta come luogo di collegamento di condotte e carriere problematiche: si può sapere a quali misure e sanzioni il soggetto è stato sottoposto nella sua vita e perché, se esse hanno avuto una effettiva validità rieducativa e risocializzante, con un intreccio di valutazioni differenti operate in sede penale, in sede di misure di sicurezza o cautelari, o anche in ambiti di gestione di problematiche più delicate, come la tossicodipendenza o la malattia mentale.


Bibliografia

BANDINI Tullio, GATTI Uberto, GUALCO Barbara et al. (2003), Criminologia. Il contributo della ricerca alla conoscenza del crimine e della reazione sociale, seconda edizione, vol. I, Giuffrè Editore, Milano.

BERTACCINI Davide (2010), La politica di polizia, Bononia University Press, Bologna.

BRICOLA Franco (1975), Forme di tutela “antedelictum” e profili costituzionali della prevenzione, in Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, cura di, Le misure di prevenzione:atti del convegno di Alghero (1974), pp. 873-947, Giuffrè, Milano.

MARTINI Adriano (2017), Essere pericolosi. Giudizi soggettivi e misure personali, Giappichelli, Torino.

MELOSSI Dario (2002), Stato, controllo sociale, devianza. Teorie criminologiche e società tra Europa e Stati Uniti, Mondadori, Milano.

PAVARINI Massimo (1975), Le fattispecie soggettive di pericolosità nelle leggi 27 dicembre 1956 n.1423 e 31 Maggio 1965 n. 575, in Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, a cura di, Le misure di prevenzione : atti del convegno di Alghero (1974), pp. 283-316, Giuffrè, Milano.

– (2006), Dell’insostenibile prevenzione. Alcuni spunti di Alessandro Baratta su scienza penale e teoria della pena, in R. Marra, a cura di, Filosofia e sociologia del diritto pena. Atti del convegno in ricordo di Alessandro Baratta (Genova, 6 maggio, 2005), pp.45-64, Giappichelli Editore, Torino.

SUTHERLAND Edwin H. (1949), La criminalità dei colletti bianchi e altri scritti, Unicopli, Milano, 1986.


1 Per ogni autore tipo sospetto di generica attività antisociale viene rappresentato un autore tipo non sospetto o autore privilegiato (Pavarini 1975 p. 306). L’ozioso e il vagabondo sono tipologie negative perché prive di reddito e dimora a meno che non siano coperti da una tipologia positiva: artista o ecclesiastico. O ancora, l’autore dedito a traffici illeciti sarà qualificato dall’elemento del tenore di vita superiore al reddito accertato ma ciò potrebbe essere compensato dal fatto che egli è un imprenditore o professionista.


Per citare questo post:

Marchio V. (2021), “Sorveglianza speciale: usi tradizionali e sperimentazioni politiche“, in Studi sulla questione criminale al link: https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2021/03/05/sorveglianza-speciale-usi-tradizionali-e-sperimentazioni-politiche-2parte/