FOTO DI FRANCESCA GABRIELE

Alessandra Algostino (Università di Torino)

Il 27 ottobre la polizia in assetto antisommossa saliva le scale del Campus Luigi Einaudi, Università Torino: un’immagine forte, inquietante, per chi, come chi scrive, insegna, studia, lavora in università. Seguivano cariche. Il motivo: la “protezione” di un’iniziativa del Fuan con la presenza dell’assessore regionale di Fratelli d’Italia. Il diritto di contestazione è stato impedito, gli studenti bloccati nelle aule, le lezioni interrotte. La risposta è stata una assemblea antifascista, viva e intensa, partecipatissima da studenti e docenti. 

Il 5 dicembre la scena si è ripetuta, questa volta appena fuori dai cancelli dell’università. Mentre gli agenti della Digos riprendevano dai locali dell’università, null’altro che inizialmente il normale passaggio di persone in un campus universitario, un ingente schieramento di polizia bloccava la strada. A quanto abbiamo appreso, erano stati chiamati dal Fuan che intendeva distribuire volantini, e prontamente accorsi; chiamati a priori, prima di qualsivoglia necessità di intervento a tutela dell’ordine pubblico, ovvero della sicurezza di tutti – e sottolineo tutti. Una sorta di scorta personale? 

Abbiamo provato ad intervenire identificandoci come docenti e interloquendo con la dirigente di piazza, per poi frapporci fisicamente tra la polizia e gli studenti, con l’intento, forse un pò ingenuo, ma doveroso verso gli studenti, di contribuire a garantire l’esercizio del diritto di contestazione senza violenza, senza interventi violenti della polizia, come da poco avvenuto. Sembrava tutto finito, il Fuan si era allontanato, quando improvvisamente la carica, gli scudi e i manganelli addosso. La storia della giornata, per me, la collega, Alice Cauduro, e una studentessa finisce al pronto soccorso; le cariche proseguono, altri studenti sono picchiati, uno studente è fermato e rilasciato all’alba. Abbiamo sporto denuncia per l’aggressione violenta e gratuita subita da parte delle forze dell’ordine e, anche per impedire il ripetersi di fatti analoghi, abbiamo creato un Coordinamento antifascista universitario[1], con l’obiettivo di mantenere vivo l’antifascismo e garantire che l’università sia uno spazio di costruzione di sapere critico e di libera espressione del dissenso.

I due fatti, non isolati, ma scene ripetute, a Torino, come altrove, indicano una chiusura degli spazi di protesta e una repressione del dissenso che si inasprisce di decreto sicurezza in decreto sicurezza (strumenti, i decreti sicurezza, multi-partisan; restando ai più significativi: legge sulla sicurezza n. 94 del 2009, governo Berlusconi; pacchetto “Minniti”, 2017; decreti sicurezza Salvini, 2018-2019). Il governo Meloni si distingue per un particolare accanimento: dal decreto “rave” al recentissimo disegno di legge “eco-vandali”, che sin dal nome racconta di una stigmatizzazione e criminalizzazione delle azioni di protesta. 

La repressione del dissenso si accompagna alla criminalizzazione degli altri due obiettivi “privilegiati” dei decreti sicurezza: i migranti (da ultimo, il decreto “Cutro”; ma anche in tal caso si ragiona di una serie di provvedimenti trasversali rispetto al colore dei governi) e il disagio sociale (dal “daspo urbano” del decreto Minniti al decreto “Caivano”, per limitarsi a due esempi).

Un supposto diritto alla sicurezza (una sicurezza declinata in senso fisico, ma anche come “ordine pubblico ideale”, sino alla qualificazione in termini di decoro) si sovrappone, surrogandola, alla sicurezza dei diritti, intesa, nel senso della Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, come terreno fertile per la garanzia dei diritti e, quindi, declinata, a partire dal secondo Novecento, altresì come sicurezza sociale e sul lavoro.   

Il diritto alla sicurezza come elemento di un bilanciamento che sfocia in una restrizione dei diritti è inserito in una deriva autoritaria che contrasta con i fondamenti di una democrazia, pluralista e conflittuale, quale quella disegnata dalla Costituzione.

Dalla tutela delle opinioni anche quando disturbano o inquietano (Corte europea dei diritti dell’uomo), dalla consapevolezza del «rapporto necessario fra democrazia e dissenso»[2], si è giunti all’espulsione del ragionamento critico, dell’argomentazione complessa, della profondità dello sguardo storico. La partecipazione effettiva quale strumento e fine della democrazia (art. 3, co. 2, Cost.) è vista con sospetto, se non apertamente osteggiata, appena diverge rispetto al pensiero dominante; la democrazia è stretta nell’asfissia omologante dell’egemonia neoliberista, ripiegata in senso identitario (in una logica, come ricorda Remotti, di sopraffazione[3]), pervasa dalla logica dicotomica amico-nemico. Emblematiche di questo clima sono le accuse di “putinismo”, in relazione alla guerra russo-ucraina, a fronte di riflessioni non appiattite sulla data di inizio della guerra e non arruolate nell’idea di una “vittoria sino all’ultimo ucraino”, e le reazioni denigratorie e aggressive nei confronti di chi legge quanto accaduto il 7 ottobre in Israele e la guerra contro Gaza come parte di una storia che inizia almeno 76 anni fa e pone la questione del rispetto del diritto internazionale in termini non selettivi e coloniali.

I recenti fatti di Torino, dunque, si inseriscono, per restare a livello cittadino, nella sperimentazione della risposta repressiva contro il movimento No Tav e la conflittualità sociale (dai provvedimenti amministrativi e giudiziari nei confronti di partecipanti a manifestazioni studentesche, agli sgomberi e perquisizioni dei centri sociali e degli squat, alle risposte alle lotte per la casa, ai fogli di via e ai processi contri gli eco-attivisti), e, allargando lo sguardo, nel filo nero di una repressione del dissenso che unisce in una torsione punitiva il diritto penale, civile e amministrativo: introduzione e reviviscenza di nuovi reati e aggravanti, sovradimensionamento della fattispecie, ricorso massiccio a misure cautelari e di prevenzione, richieste di risarcimenti danni, previsione di consistenti sanzioni pecuniarie, diritto di riunione limitato attraverso circolari (la direttiva Maroni del 2009 e la direttiva Lamorgese del 2021), abusi nell’utilizzo del potere di ordinanza di sindaci e prefetti. 

È un filo nero, che coniuga intento repressivo e preventivo, in quanto mira a dissuadere, a creare quel clima di «timore ragionevole in altri cittadini coinvolti in mobilitazioni sociali o che vorrebbero partecipare ad esse» che la Corte Interamericana ha denunciato.

Senza «libertà di stampa e di riunione illimitata, libera lotta d’opinione […] la vita pubblica s’addormenta», scriveva Rosa Luxemburg[4]. È questo il fine, una democrazia anestetizzata? O forse, questo è insieme mezzo e fine? La democrazia è conflitto: restringendo gli spazi di democrazia, si neutralizza il conflitto sociale.


[1] https://www.facebook.com/profile.php?id=61554876561379&locale=it_IT

[2] N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, 1991, p. 60.

[3] F. Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari, ed. 2017, p. 140.

[4] R. Luxemburg, La Rivoluzione russa, Massari, Bolsena, 2004, p. 84.

Per citare questo post:

A. Algostino (2024), “Un caso di ‘ordinaria’ repressione a Torino e il filo nero della criminalizzazione del conflitto”, disponibile al seguente link: un-caso-di-ordinaria-repressione-a-torino-e-il-filo-nero-della-criminalizzazione-del-conflitto