in Lessico di guerra

Marc Chagall, La Mariée, 1950 

di Enrico Campelli (Lumsa Roma)

Il tema della cittadinanza, e dunque della definizione del perimetro della comunità politica di uno Stato, seppure istituto giuridico di lontanissima origine, costituisce nondimeno uno dei grandi protagonisti del dibattito contemporaneo sui diritti. Nonostante le semplificazioni frequenti, che tendono a darne un’immagine univoca e perfettamente definita dal suo ben sperimentato significato burocratico, infatti, la nozione di cittadinanza è piuttosto un indicatore critico, un punto di convergenza cruciale di processi giuridici, politici e sociali di particolare intensità, nonché di complesse negoziazioni di senso. Di questo complesso dibattito in transizione Israele rappresenta un caso particolarissimo, e nello stesso tempo ricco di indicazioni di portata ampiamente generale. È proprio qui che il problema antico della cittadinanza mostra con straordinaria evidenza la sua modernità sorprendente nei suoi risvolti non solo giuridici e formali ma anche sociali, demografici, politici ed economici.

Come è noto, lo Stato d’Israele si definisce come uno «Stato ebraico», anche se, in alternativa, vengono spesso utilizzate espressioni diverse – come «Stato degli ebrei» o «Stato del popolo ebraico» – dal significato normativo dubbio e molto discusso, soprattutto con riferimento alle novità costituzionali del 2018 e all’approvazione della Nation State Law. Per quanto la definizione di «Stato ebraico» contenga al suo interno un arcobaleno di molteplici significati e sfumature, è possibile affermare, in via generale, che questa definizione debba essere intesa ricollegandola all’idea dello Stato d’Israele come la realtà politica e giuridica in cui si realizza il diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico. Precisamente in ragione della propria specificità in quanto Stato ebraico, dunque, una delle caratteristiche costitutive dell’ordinamento israeliano è data dal diritto di ogni persona di religione ebraica di emigrare nello Stato d’Israele, in cui il popolo ebraico costituisce la maggioranza demografica, in cui l’ebraico è la lingua principale e ufficiale dello Stato[1], e in cui le principali feste e simboli sono legate alla tradizione e alla religione ebraica.

In un simile contesto, complicato ulteriormente dal ruolo della religione nell’ordinamento e, ovviamente, dall’evidente vulnus relativo al conflitto israelo-palestinese e arabo-israeliano – che si traduce nell’occupazione israeliana di ampie aree palestinesi i cui residenti non godono dello status di cittadini – l’istituto della cittadinanza risulta avere un ruolo fondamentale e particolarissimo, offrendo nuove prospettive di studio e di classificazione. Il «prisma» dell’istituto di cittadinanza è in effetti il vero cardine dell’ebraicità dell’ordinamento israeliano e una lente fondamentale per comprendere dinamiche strutturali degli Accordi di Oslo e, più in generale, dell’occupazione israeliana in West Bank.

L’istituto trova la sua prima codificazione nella Megillat Ha’azmaut, la Dichiarazione dell’Indipendenza, che riporta specificamente che lo Stato d’Israele sarebbe stato aperto all’immigrazione ebraica (aliyà) e al raduno degli ebrei della diaspora. Al momento della fondazione dello Stato d’Israele, vi erano infatti centinaia di migliaia di profughi di religione ebraica provenienti dall’Europa e dagli Stati arabi del Nord Africa, per i quali il nascente Stato ebraico era l’unica via per una vita sicura e nuova, lontana dall’Europa della Shoah e dalle tragedie degli anni immediatamente successivi, o in fuga dagli Stati arabi in cui essi non potevano più risiedere dal momento della fondazione di uno Stato ebraico. Era quindi imperativo che l’ordinamento nascente si dotasse di una legislazione tale da consentire l’immediata concessione della cittadinanza a qualunque persona di religione ebraica desiderasse trasferirsi in Israele (gli olim hadashim). La legislazione principale a questo proposito riguarda infatti il diritto al «ritorno» e la capacità degli ebrei di «ritornare» in Israele, dopo l’esilio, per ricevere la cittadinanza con modalità quasi automatiche[2].

La perdurante discussione circa le condizioni giuridiche da soddisfare per ricevere la cittadinanza coinvolge tuttora una pluralità di aspetti nazionali, culturali e individuali, e rappresenta certamente uno dei nodi più complessi per la teoria dello Stato israeliano. Dal punto di vista nazionale, infatti, le condizioni prescritte per ottenere la cittadinanza sono determinanti per il carattere dello Stato, e fondamentali dal punto di vista demografico[3].  Il mantenimento di una maggioranza ebraica tra i cittadini israeliani dipende infatti, in gran parte, da una politica di concessione della cittadinanza che esprima una chiara preferenza per gli ebrei in relazione soprattutto agli arabi, come pure – anche se in misura assai inferiore – agli appartenenti ad altre confessioni religiose. Allo stesso modo, la politica di concessione della cittadinanza influisce in modo decisivo sulla natura del carattere «ebraico» dello Stato, tema – questo – a sua volta ragione di intensa discussione circa la definizione di «ebreo» che potrebbe – o secondo i punti di vista, dovrebbe – ottenere un trattamento preferenziale nell’acquisizione della cittadinanza. Questi elementi critici sono ulteriormente complicati dalle circostanze personali di ciascun richiedente interessato ad associare il suo destino a quello dello Stato, poiché, come ogni altro ordinamento contemporaneo, allo Stato d’Israele è anche richiesto di far fronte alla volontà di cittadini non ebrei, di qualsivoglia provenienza, di farne parte, sia temporaneamente che su base permanente[4]

In termini generali[5], le procedure di immigrazione e cittadinanza in Israele sono regolate da tre leggi principali: la Law of Return[6],  la Nationality Law[7] e la Entry Into Israel Law[8], approvate tra il 1950 e il 1952, che stabiliscono l’esistenza di quattro modalità di acquisizione della cittadinanza israeliana: per nascita (attraverso il principio dello ius sanguinis), attraverso la Legge del Ritorno, per residenza (sebbene tale principio sia molto limitato) e per naturalizzazione. Tali normative sono altresì caratterizzate dalla facilità con cui viene, in termini comparati, concessa la cittadinanza alle persone di religione ebraica. È infatti intendimento largamente accettato, almeno fin ad ora, che una condizione essenziale per il mantenimento di Israele come Stato ebraico, in cui il popolo ebraico possa esercitare il suo diritto all’autodeterminazione, sia l’esistenza di una decisiva maggioranza ebraica. Questo concetto si traduce nel riconoscimento del diritto di ogni ebreo di ricevere la cittadinanza immediatamente dopo essere arrivato in territorio israeliano («Cittadinanza in virtù del diritto al ritorno») e aver espresso la sua volontà di stabilirsi in Israele[9]. La cittadinanza automatica è quindi concessa, senza nessun vincolo legato all’adempimento di altri obblighi, inclusa la condizione di aver previamente risieduto nello Stato per un determinato periodo di tempo. A questo proposito, la Corte ha riconosciuto a ogni persona di religione ebraica il diritto fondamentale e naturale di ricevere la cittadinanza israeliana, e il diniego di tale diritto è possibile solo in circostanze eccezionali.

Quindi, il diritto alla cittadinanza secondo il principio del ritorno è anche concesso a «un figlio e un nipote di un ebreo, il coniuge di un ebreo, il coniuge del figlio di un ebreo e il coniuge del nipote di un ebreo»[10]  (art. 4A della Legge del Ritorno), anche nel caso in cui l’ebreo nei confronti del quale si rivendica il diritto non sia nemmeno emigrato in Israele. In questo quadro normativo, la possibilità per i non ebrei (o per coloro che non sono parenti di persone di religione ebraica) di ricevere la cittadinanza è fortemente limitata e subordinata alla concessione di un’ampia discrezionalità al Ministro dell’Interno. Le restrizioni più severe, compresa la totale negazione della possibilità di ottenere la cittadinanza, sono imposte ai palestinesi della West Bank e di Gaza, in ragione del proposito di assicurare il mantenimento di una maggioranza ebraica tra i cittadini israeliani e di alcune considerazioni, fortemente dibattute, di natura politica[11]. Da segnalare, inoltre, lo status “intermedio” dei residenti di Gerusalemme Est: si tratta infatti di residenti permanenti e non di cittadini israeliani. Non possono quindi votare per le elezioni politiche ma solo per quelle municipali (a cui comunque, buona parte dei residenti permanenti sceglie di non prendere parte).

Il dibattito circa l’approvazione della Basic Law: Israel as the Nation-State of the Jewish People, che stabilisce che «L’esercizio del diritto di autodeterminazione nazionale è unicamente del popolo ebraico» (Art 1. Com. C) e il respingimento del disegno di legge Basic Law: A Country of All Its Citizens (proposto da alcuni parlamentari della Joint List araba), sono, invero, solo alcune delle “caldissime” tappe del complesso dibattito sulla cittadinanza israeliana. Il tema si è recentemente arricchito con nuove proposte da parte della maggioranza di destra radicale guidata da Netanyahu votate a limitare il “diritto al ritorno” per gli ebrei convertiti o le ipotesi di perdita della cittadinanza per gli arabi israeliani condannati per terrorismo. Lo studio dell’istituto di cittadinanza e dei suoi relativi meccanismi di “inclusione nella ed esclusione dalla” comunità politica, assume in questo caso l’interesse cruciale di un vero laboratorio concettuale, le cui implicazioni diventano utili per comprendere molte realtà giuridiche e politiche contemporanee (sempre più caratterizzate da fenomeni di inclusione differenziale e semi-cittadinanze).

La politica di concessione della cittadinanza di cui si è detto, che esprime una chiara preferenza per gli ebrei in relazione soprattutto agli arabi, ed in generale l’irrisolta e inquieta definizione di ordinamento “ebraico e democratico” sono gli elementi centrali che hanno portato alcuni autori a definire Israele come una «democrazia etnica». Sammy Smooha[12], coniando questa definizione, intende un sistema di piena democrazia combinato peraltro con l’esistenza di un gruppo etnico maggioritario in posizione dominante rispetto ad altri gruppi minoritari. Questi ultimi tuttavia, nella sua interpretazione, sono in grado di utilizzare ogni elemento del sistema democratico nel quale sono collocati, compresa la possibilità di agire per una sua trasformazione.

A questa posizione, altri autori (tra cui As’ad Ghanem, Oren Yiftachel, Nadim Rouhana e Masri Mazen)[13], oppongono una lettura teorica sostanzialmente diversa, ritenendo non accostabili – da nessun punto di vista – il concetto di ethnos, selezionato in base a una appartenenza originaria, e quello di demos, inclusivo di individui di origine diversa e trasversale, cittadinanza e cultura. Israele come «democrazia etnica» sarebbe – da questo punto di vista – un coacervo di elementi contraddittori, ai quali tuttavia mancherebbe il carattere transitorio e una reale possibilità di sviluppo, così da consegnare l’assetto attuale a una sorta di paradossale normalità giuridica. Sarebbe piuttosto la nozione di «etnocrazia» a descrivere la specificità dello Stato di Israele, rimarcando dunque una forte distanza da qualsiasi modello pienamente democratico.

In una posizione mediana si colloca il lavoro di Yoav Peled[14], secondo cui a partire dal 2000, anno dello scoppio della Seconda Intifada, Israele – fino ad allora perfettamente accostabile alla definizione di «democrazia etnica» – si è costantemente mosso verso una forma di Stato che assomiglia fortemente a una etnocrazia. Il nodo della distinzione – e della divergenza – sta nella circostanza che risulterebbe garantito a tutti (almeno dentro il territorio internazionalmente riconosciuto come israeliano) l’esercizio di uguali diritti, ma riconosciuta solo alla «comunità morale» ebraica la possibilità di concorrere alla realizzazione dell’obiettivo di un bene comune. Ed è proprio questa appartenenza alla «comunità morale» che garantisce e dà diritto all’accesso a una cittadinanza «repubblicana» – riservata agli ebrei – mentre gli arabi israeliani (ed eventualmente anche altre minoranze non ebraiche) sarebbero collocati in uno spazio di cittadinanza «liberale», con il relativo godimento di diritti, ma anche con l’esclusione dalla «comunità morale», asse e appannaggio esclusivo della cittadinanza repubblicana. È proprio la compresenza di due tipi di cittadinanza, «repubblicana» e «liberale», che spinge Peled a identificare Israele come una democrazia ancora in evoluzione e sempre maggiormente orbitante verso l’asse etnico.

In nessun ordinamento giuridico contemporaneo il tema della cittadinanza assume un valore costituente come in Israele. Domande come “chi possa essere israeliano” e “quale rapporto esista tra ebraismo e cittadinanza israeliana”, non sono solo «approcci» giuridici modificabili nel tempo come per la maggior parte degli ordinamenti moderni, ma rappresentano il vero cardine «ontologico» – la stessa ragion d’essere – dello Stato israeliano. Affrontare il tema della cittadinanza in Israele significa dunque porre specificamente il problema del modo in cui i criteri di inclusione sociale e di acquisizione della cittadinanza possano influenzare giuridicamente e politicamente la forma di Stato e il regime politico del Paese, nonché il futuro del conflitto israelo-palestinese: da qui la sua assoluta unicità.


[1] Soprattutto da quando, nel 2018, l’arabo è stato declassato a lingua dallo “status speciale”.

[2] Si veda a questo proposito la posizione di D. Ernst, The Meaning and Liberal Justifications of Israel’s Law of Return, in Israel Law Review, Vol. 42, Issue 3, 2009, pp. 564-602.

[3] Sono molti i demografi israeliani e internazionali che hanno insistito sul problema del mantenimento degli assetti demografici. Da questo punto di vista, l’eventuale annessione israeliana della West Bank comporterebbe, tra le altre conseguenze, una riduzione della maggioranza ebraica al 60% della popolazione complessiva, rendendo ulteriormente problematica la definizione di Israele come Stato “ebraico e democratico”.

[4] Si veda G. Milani, La legislazione in materia di immigrazione e cittadinanza in Israele e gli effetti sulla popolazione araba e su quella ebraica, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, XV, n. 3, 2013.

[5] Per una trattazione più di dettaglio sia permesso il rimando a E. Campelli, Prove di convivenza. L’istituto della cittadinanza nell’ordinamento giuridico israeliano, Giuntina, 2022.

[6] Law of Return, 5710-1950, approvata dalla Knesset il 5.7.1950.

[7] Nationality Law, 5712-1952, approvata dalla Knesset l’1.4.1952.

[8] Entry into Israel Law, 5712-1952, approvata dalla Knesset il 26.8.1952.

[9] Sezione 3 della Legge del Ritorno, 1950, e sez. 2 della Citizenship Law del 1952.

[10] La formulazione che prevede l’accesso alla cittadinanza a chiunque abbia un nonno ebreo è stata inserita nel 1970, con un provvedimento conosciuto come Grandparents amendment, fortemente voluto dal Governo di Golda Meir.

[11] Si veda a questo proposito D. Barak-Erez, Israel: Citizenship and Immigration Law in the Vise of Security, Nationality, and Human Rights, in International Journal of Constitutional Law, Vol. 6, n. 1, 2008, pp. 184-192.

[12] Si veda S. Smooha, Ethnic Democracy: Israel as an Archetype, in Israel Studies, Vol. 2, n. 2, 1997; S. Smooha, The Model of Ethnic Democracy: Israel as a Jewish and Democratic State, in Nations and Nationalism, Vol. 8, n. 4, 2002; S. Smooha, The Model of Ethnic Democracy: Response to Danel, in The Journal of Israeli History, n. 28, 2009.

[13] Si vedano A. Ghanem, N. Rouhama, O. Yiftachel, Questioning “Ethnic Democracy”: A Response to Sammy Smooha, in Israel Studies, Issue 3, n. 2, 1998; A. Ghanem, State and Minority in Israel: The Case of Ethnic State and the Predicament of its Minority, in Ethnic and Racial Studies, Vol. 21, n. 3, 1998; M. Mazen, The Dynamics of Exclusionary Constitutionalism. Israel as a Jewish and Democratic State, Bloomsbury, 2017; M. Mazen, The Implications of the Acquisition of a New Nationality for the Right of Return of Palestinian Refugees, in Asian Journal of International Law, Cambridge UniversityPress, 2014; O. Yiftachel, Ethnocracy: Land, Politics and Identities in Israel Palestine, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 2006; O. Yiftcahel, Israeli Society and Jewish-Palestinian Reconciliation: Ethnocracy and Its Territorial Contradictions, in Middle East Journal, Vol. 51, n. 4, 1997; N. Rouhama, N. Sultany, Redrawing the Boundaries of Citizienship: Israel’s New Hegemony, in Journal of Palestine Studies, Vol. 33, 1, 2003; N. Rouhama, The Test of Equal Citizenship: Israel Between Jewish Ethnocracy and Binational Democracy, in Harvard International Review, Vol. 20, n. 2, 1998.

[14] Si vedano Y. Peled, Citizenship Betrayed: Israel’s Emerging Immigration and Citizenship Regime, in Theoretical Inquiries in Law, 8, 2, 2007; Y. Peled, Ethnic Democracy and the Legal Construction of Citizenship: Arab Citizens of the Jewish State, in American Political Science Review, Vol. 86, n. 2, 1992; Y. Peled, The Challenge of Ethnic Democracy, Routledge, New York, 2014; Y. Peled, The Evolution of Israeli Citizenship: An Overview, in Citizenship Studies, Vol. 12, Issue 3, 2008.

Per citare questo post:

E. Campelli (2024), Cittadinanza israeliana, in blog di Studi sulla questione criminale, al link: https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2024/04/05/cittadinanza-israeliana/

Puoi seguire il Lessico di guerra a questo link: Lessico di guerra

Bibliografia

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