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di Anna Cortimiglia

È stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale, dopo la firma del Presidente della Repubblica, la legge n. 6 del 22 gennaio 2024, ossia la cosiddetta “legge eco-vandali” o “eco proteste” promossa dal ministro della cultura Gennaro Sangiuliano.  In vigore  a partire dall’8 di febbraio, ha trovato già dopo pochi giorni la sua prima applicazione nei confronti di un attivista di Ultima Generazione, colpito da una sanzione amministrativa di 20.000 euro a seguito dell’azione dimostrativa presso gli Uffizi di Firenze, dove quest’ultimo ha attaccato con scotch di carta le foto dell’alluvione di Campi Bisenzio sul vetro della Venere di Botticelli.

Il ministro, all’indomani dell’approvazione alla Camera dei deputati del disegno di legge aveva così commentato: “oggi è una bella giornata per la cultura italiana e, in particolare, per il patrimonio artistico e architettonico della Nazione. Con l’approvazione definitiva a Montecitorio diventa legge il ‘ddl eco-vandali’, da me fortemente voluto, che stabilisce un principio cardine: d’ora in poi, chi arrecherà dei danni al patrimonio culturale e paesaggistico sarà costretto a pagare di tasca propria il costo delle spese per il ripristino integrale delle opere”.

È chiaro, dunque, quale sia l’obiettivo dell’intervento legislativo: quello dichiarato, perlomeno, è assicurare che chi danneggia beni di valore artistico e culturale debba risarcire i danni arrecati. Il destinatario delle norme non è però un vandalo qualsiasi, ma l’eco-vandalo. Si tratta, dunque, di un provvedimento che non è motivato da un generale intento di tutela nei confronti dei beni culturali ma si rivolge esplicitamente al fenomeno delle azioni di protesta degli attivisti e delle attiviste per il clima che, negli ultimi anni, hanno ricompreso nella loro linea di azione anche atti dimostrativi che coinvolgono opere d’arte – sempre protette da teche o vetri – al fine di portare l’attenzione sugli imminenti pericoli causati dal cambiamento climatico e sulla distonia tra l’attaccamento nei confronti delle opere d’arte e il disinteresse nei confronti del pianeta.

Astrattamente, le reazioni possibili da parte di chi detiene il potere pubblico di fronte a questo fenomeno sono due. Da un lato, riconoscere la portata del problema della crisi climatica e agire di conseguenza, anche considerando le ripercussioni drammatiche che questo può avere rispetto ai beni d’interesse storico e culturale: il cambiamento climatico, infatti, rappresenta una minaccia crescente per il patrimonio culturale, per i musei e per le loro collezioni, considerando la crescente incidenza di  disastri naturali e la difficoltà nel mantenere le condizioni di conservazione delle opere in presenza condizioni meteorologiche estreme. Questo vale anche se si intende ignorare l’impatto del cambiamento climatico sulla sopravvivenza della specie umana sul pianeta, anch’esso elemento decisivo quanto alla fruizione delle opere d’arte. Tali riflessioni sono state condivise, ad esempio, anche dall’International Council of Museums – Icom, cioè la principale organizzazione internazionale non governativa che rappresenta i musei e i lavoratori museali.

Altra reazione possibile, sul piano delle public policies, è invece quella sanzionatoria nei confronti delle azioni di protesta e dei loro perpetratori. Possiamo affermare che questa è la strada prediletta dell’attuale governo, e la legge “eco-vandali” o “eco-proteste” ne è l’ultimo esempio.

Il contenuto della legge può essere così riassunto. Da un lato, abbiamo un complessivo inasprimento delle sanzioni penali per i reati di danneggiamento (art. 635 c.p.) e deturpamento o imbrattamento di cose altrui (639 c.p.).

Il reato di danneggiamento, e in particolare il danneggiamento aggravato dallo svolgersi “in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico”, fattispecie inserita dal Decreto Sicurezza bis voluto dall’allora ministro dell’interno Matteo Salvini, sarà sanzionato oltre che con la reclusione da uno a cinque anni anche con la multa fino a 10.000 euro.

Quanto al reato di deturpamento o imbrattamento, oltre a un aggravamento piuttosto irrisorio della pena pecuniaria (che da “fino a 109 euro” è innalzata a “fino a 309 euro”), è stata inserita una circostanza aggravante speculare a quella appena richiamata, che dunque prevede addirittura il raddoppiamento delle pene per chi deturpa o imbratta cose mobili o immobili altrui in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico (si tenga conto che, di norma, una circostanza aggravante, quando non diversamente previsto, ha l’effetto di aumentare la sanzione di un terzo). Il perseverare del legislatore lungo questo crinale non può non far pensare alla versione della norma di cui la Corte Costituzionale ha sancito l’illegittimità nel 1971, dichiarando l’incompatibilità rispetto al dettato costituzionale dell’art. 635 del codice penale nella parte in cui prevedeva come circostanza aggravante del reato di danneggiamento il fatto che tale reato fosse commesso da lavoratori in occasione di uno sciopero: “con la norma in esame si è voluto colpire, sia pure in occasione del danneggiamento, proprio lo sciopero in quanto tale”, affermavano i giudici della Corte.

Particolarmente significativa è, poi, l’aggiunta di una ulteriore circostanza aggravante alla norma di cui all’art. 639, che è integrata quando “il fatto è commesso su teche, custodie e altre strutture adibite all’esposizione, protezione e conservazione di beni culturali esposti in musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente e istituto pubblico”. L’aggiunta di questa fattispecie è la massima espressione del fatto che si tratta di una riforma ad personam. È una norma che non colma nessun sensibile vuoto di tutela: descrive con esattezza un fenomeno di stretta attualità – o piuttosto, di fatto, prende di mira uno specifico tipo di autore – che si ritiene degno di particolare biasimo e lo sanziona in maniera differente. Dall’altro lato, curiosamente, l’inserimento di questa aggravante nel contesto del reato di imbrattamento e non di quello di danneggiamento sconfessa la strategia repressiva portata avanti finora. Come si diceva già in questo articolo, infatti, la prassi delle Procure è stata quella di contestare ai manifestanti il più grave reato di danneggiamento, nonostante le azioni non determinassero quella irreversibile modifica dell’aspetto e della funzionalità del bene richiesti per integrare il reato, con ciò consentendo l’arresto in flagranza, i processi per direttissima e in generale la minaccia di più gravi sanzioni. Paradossalmente, questa novità normativa potrebbe rivelarsi un’inaspettata mossa a favore degli attivisti sul piano delle contestazioni penali.

L’altro strumento utilizzato dal legislatore è, invece, l’inserimento di nuove sanzioni amministrative pecuniarie, che si sommano alle sanzioni penali già previste (stante l’inciso posto all’inizio della norma, “ferme le sanzioni penali applicabili”).

Si tratta di sanzioni che vanno dai 20.000 ai 60.000 euro per le azioni di danneggiamento e dai 10.000 ai 40.000 per le azioni di imbrattamento o deturpamento di beni culturali o paesaggistici propri o altrui.

L’inserimento di questo “doppio binario” sanzionatorio penale e amministrativo viene spiegato con la necessità di garantire che i vandali paghino di tasca propria eventuali spese per il ripristino dei beni, tanto che si prevede espressamente che i proventi delle sanzioni amministrative debbano essere “versati ad apposito capitolo del bilancio dello Stato per essere successivamente riassegnati al Ministero della cultura affinché siano impiegati prioritariamente per il ripristino dei beni”. Insomma, come si suol dire, oltre al danno la beffa: invece del “fondo riparazione” che gli attivisti di Ultima Generazione chiedono sia stanziato per far fronte ai danni causati da calamità naturali ed eventi climatici estremi, si stanzia un apposito fondo per il ripristino delle teche imbrattate.

Si tratta di una manovra dall’ovvia portata propagandistica: è già, infatti, un fondamentale principio dell’ordinamento a dettare che il responsabile di un danno debba essere condannato a un risarcimento commisurato alla spesa necessaria per riportare una situazione di fatto così come sarebbe stata se il fatto illecito non si fosse verificato, risarcimento che può essere richiesto in sede civile o in sede penale. Altro è la sanzione amministrativa, che, come la pena pecuniaria in campo penale, ha una funzione puramente afflittiva, sanzionatoria, non risarcitoria o ripristinatoria.

Ciò che cambia è la facilità di riscossione della sanzione amministrativa: sottratta al controllo giudiziale, viene irrogata direttamente dal prefetto del luogo dove è stata commessa la violazione. In sostanza, si colpiscono gli attivisti in modo più diretto, prevedendo pesanti sanzioni pecuniarie per le quali non operano né il filtro dell’accertamento del fatto in sede penale né i meccanismi che nella medesima sede permettono di evitare l’applicazione di una sanzione penale per fatti di lieve tenore di gravità, come la sospensione condizionale della pena.

Quanto alla descrizione della condotta, salta immediatamente all’occhio una incongruenza normativa. Se le azioni rivolte nei confronti delle teche, delle custodie e altre strutture adibite all’esposizione, protezione e conservazione di beni culturali esposti in musei sono inserite nell’ambito del reato di imbrattamento o deturpamento ai sensi dell’art. 639, la sanzione amministrativa risulta invece omologa e parallela rispetto a un altro reato, l’art. 518 duodecies, che sanziona l’imbrattamento o il danneggiamento, nello specifico, dei beni culturali o paesaggistici. Dovrebbe dunque ritenersi che le azioni che colpiscono esclusivamente i rivestimenti delle opere senza danneggiarle (cioè tutte le azioni poste in essere fino a questo momento) siano escluse dalla iniziativa sanzionatoria di nuovo conio, proprio perché non rivolte direttamente al bene culturale e non provocando a quest’ultimo alcun danno.

La strategia punitiva si è immediatamente resa palese, dissipando ogni perplessità interpretativa: come reso noto dai canali social dell’organizzazione, l’attivista di Ultima Generazione colpito dalla sanzione amministrativa in esame è accusato di avere, con l’affissione delle fotografie sul vetro che protegge la Venere, coperto “in parte la bellezza del quadro di Botticelli rendendolo non visibile nella sua interezza (…) a seguito di tale condotta, di fatto rendeva NON fruibile il bene culturale alle centinaia di visitatori presenti”. Così, con una contestazione amministrativa le cui direttive applicative sono dettate direttamente dal potere esecutivo, si trova il modo di rimproverare agli attivisti una lesione dell’opera d’arte anche quando questa non viene in realtà messa a rischio. Non è un caso, infatti, che a nessun attivista, per quanto al momento noto, sia stato mai contestato il reato di imbrattamento o danneggiamento di beni culturali (il citato art. 518 duodecies)  sul piano penale.

La narrazione, dunque, vorrebbe che l’introduzione del doppio binario sanzionatorio, amministrativo e penale, rispondesse a una esigenza di tutela del patrimonio artistico e culturale. A ben vedere, si può invece fare un’altra ipotesi. Il legislatore, probabilmente, aggiusta il tiro dopo che alle martellanti campagne mediatiche in cui si invocavano pene esemplari sono seguiti provvedimenti giurisdizionali di buon senso: la sentenza di non luogo a procedere per le più risalenti azioni dimostrative del museo degli Uffizi a Firenze, o ancora l’assoluzione per le accuse danneggiamento, manifestazione non autorizzata e inottemperanza al foglio di via del Tribunale di Bologna. Quest’ultimo provvedimento, poi, è particolarmente rilevante perché agli attivisti è stata applicata (per i reati rispetto ai quali è stata, invece, riconosciuta la responsabilità penale) una circostanza attenuante di rarissima applicazione: quella di aver agito per particolari motivi di ordine morale e sociale, rispetto alla quale gli orientamenti giurisprudenziali si sono formati proprio nell’ambito delle azioni di protesta, perlopiù escludendola ritenendo insufficiente l’intima convinzione dell’agente di perseguire un fine moralmente apprezzabile e non egoistico. Sarebbe, infatti, indispensabile che i valori posti a fondamento dell’azione siano effettivamente apprezzabili da un punto di vista etico per la collettività o per la maggioranza di questa. Il tempo ci dirà se assisteremo, sul tema, a uno storico revirement

In sintesi: il diritto penale, con il suo sistema (sebbene imperfetto) di garanzie, si è rivelato uno strumento non all’altezza delle aspettative punitive sproporzionate di quella parte di opinione pubblica che vede il pericolo negli attivisti e non nel cambiamento climatico. Si mira, dunque, a colpire con ineludibili sanzioni economiche i manifestanti, disponendo anche un trattamento deteriore rispetto alle sanzioni amministrative regolate in via generale dalla l. 689 del 1981, con la previsione secondo cui l’applicazione della sanzione in misura ridotta non è ammessa se “il destinatario del provvedimento sanzionatorio si sia già avvalso, nei cinque anni precedenti, della stessa facoltà”.

Come si diceva poco sopra, possiamo pensare a questo intervento normativo come un esempio di diritto penale d’autore – un attacco frontale agli attivisti per il clima più che a un fenomeno criminoso nella sua materialità. Viene da chiedersi cosa penseremo nel prossimo futuro, guardandoci indietro, delle iniziative di questo tipo: quanto invecchieranno in fretta queste norme, quando sarà il clima che cambia a mettere seriamente a rischio il patrimonio storico e culturale del Paese. Intanto possiamo tirare un sospiro di sollievo al pensiero che le teche sono salve.

Per citare questo post: 

A. Cortimiglia (2024), Eco-vandali, in blog di Studi sulla questione criminale al link: https://studiquestionecriminale.wordpress.com/?p=5930