*Orlando Sapia, avvocato e segretario Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro

L’esecuzione penale nel corso degli ultimi decenni si è caratterizzata per il patologico fenomeno del sovraffollamento carcerario che ha portato lo Stato italiano ad essere condannato dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in svariati procedimenti, aventi ad oggetto richieste di indennizzo per trattamenti inumani e degradanti in violazione dell’art. 3 della Convenzione EDU, sino ad arrivare alla sentenza c.d. pilota emessa nel procedimento tra Torreggiani + altri contro Italia che, oltre agli indennizzi, ha imposto allo Stato di realizzare un’apposita azione legislativa al fine di consentire una deflazione della popolazione carceraria, così da garantire le condizioni essenziali per il rispetto dei diritti umani, tra le quali la disponibilità di almeno tre metri quadri per soggetto detenuto all’interno delle camere di detenzione.

Sull’onda della sentenza CEDU sono stati adottati provvedimenti di natura legislativa al fine di evitare l’accesso al circuito dell’esecuzione penale, in senso stretto, di coloro i quali siano coinvolti nelle fasi di indagine e processuale. In questo senso si segnala la L. n. 67/2014 che ha introdotto l’istituto della messa alla prova, art. 168 bis c.p., anche per gli adulti, nei reati di competenza del tribunale monocratico, e la possibilità di declaratoria di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, art. 131 bis c.p., per alcune fattispecie di reato che non destano un grande allarme sociale. Sempre sotto il profilo legislativo, con il D.L. n. 146 del 2013, convertito dalla L. n. 10 del 2014, è stata istituita la liberazione anticipata speciale che ha, temporaneamente, innalzato la detrazione pena da quarantacinque a settantacinque i giorni, per ogni semestre di buona condotta, così da favorire una più rapida diminuzione della popolazione detenuta. Al fine di fronteggiare le problematiche causate dal sovraffollamento e, così, non incorrere in violazione dei diritti umani, conseguenti alla scarsità degli spazi a disposizione per ogni soggetto detenuto, è stata introdotta con la circolare 14/07/2013 del DAP la sorveglianza dinamica che ha permesso ai soggetti detenuti, in media e bassa sicurezza, di poter vivere gli istituti di pena al di fuori delle camere di detenzione per almeno otto ore al giorno, fino ad un massimo di quattordici, in  modo da rendere più dignitosa l’esecuzione penale in un’ottica di rilancio dell’attività trattamentale.    

Purtroppo, oggi, ad oltre dieci anni di distanza dalla storica pronuncia e dagli interventi legislativi/amministrativi che ne sono seguiti, la situazione all’interno degli istituti di pena continua ad essere allarmante, essendo il sovraffollamento carcerario una costante della realtà penitenziaria. Attualmente il numero dei detenuti ha superato le 60.000 unità e, con un aumento mensile di circa 400 detenuti, in breve tempo raggiungerà la soglia di criticità che valse la condanna da parte della Corte EDU nell’anno 2013.[1]

La cronicità del sovraffollamento penitenziario è la diretta conseguenza di due fattori che congiuntamente sono all’origine del drammatico paradosso per cui lo Stato italiano, nell’esercizio del potere punitivo, dimostra di non avere quella civiltà che vorrebbe insegnare a chi viola i precetti penali. 

La prima causa è la riforma dell’articolo 79 della Costituzione in materia di concessione di amnistia e indulto. Trattasi a tutti gli effetti di un “frutto avvelenato” che la Prima Repubblica ha dato in lascito alla Seconda. Difatti, fu proprio al termine della X Legislatura, che venne promulgata la Legge Costituzionale n.1 del 06/03/1992. A seguito di questa riforma costituzionale è stato disposto che la legge di amnistia/indulto debba essere deliberata a maggioranza di due terzi dei componenti di ciascun ramo del Parlamento, in ogni suo articolo e nella votazione finale. Maggioranza così elevata non sono richieste nemmeno per la deliberazione definitiva delle leggi costituzionali, con il paradosso che sarebbe più facile modificare la normativa relativa alla produzione giuridica che approvare la fonte di produzione, ovverosia la legge di clemenza[2]. Da allora si è avuta solo la legge sull’indulto del 2006, causa di forti tensioni all’interno di quell’esecutivo che di lì a poco fu sfiduciato dal Parlamento.

L’altro fattore è la pervicace attuazione di politiche securitarie che producono il sistematico aumento degli edittali di pena, la continua creazione di fattispecie di reato e il proliferare di condizioni ostative alla concessione di misure alternative. La promulgazione di “pacchetti sicurezza” è tanto costante quanto immotivata, sotto il profilo di quella che è la funzionalità denunciata ufficialmente, visto il costante calo degli indici di commissione di reati che si è riscontrato nel corso degli ultimi anni. 

È al contrario direttamente proporzionale alla raccolta del consenso elettorale, essendo attualmente sotto un profilo di finanza pubblica meno oneroso l’affermazione di un generico, quanto imprecisato, diritto alla sicurezza, rivolto alla “pancia” del paese, piuttosto che garantire la sicurezza dei diritti sociali, che trovano la loro diretta legittimazione nella Carta Costituzionale.

Se a questo si aggiunge un utilizzo eccessivo della leva cautelare, tanto da riguardare in maniera tutt’altro che occasionale anche soggetti che all’esito di lunghi iter processuali sono poi assolti, ne consegue che oggi è molto più facile entrare in carcere ed è altrettanto più difficile uscirne.[3]

Sotto quest’ultimo profilo, si evidenzia la frequenza sistemica degli errori giudiziari. Le cifre sono importanti, quasi mille errori giudiziari all’anno negli ultimi trenta anni. Dal 1991 al 31 dicembre 2022 i casi sono stati 30.778: in media, poco più di 961 ogni anno. Il tutto per una spesa complessiva dello Stato, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri, pari a 932 milioni 937 mila euro.[4] Si ritiene che la soglia di fisiologico errore sia stata ampiamente superata.

I detenuti negli istituti di pena, che per lo più appartengono alla fascia dei soggetti economicamente in stato di povertà e spesso sono di origine meridionale o migranti, con frequenza oramai drammatica decidono di togliersi la vita, piuttosto che soffrire una detenzione che si connota per un insopportabile, quanto illegittimo, surplus di afflittività. Dall’inizio dell’anno, in poco più di tre mesi, sono trentadue i soggetti in stato di detenzione che hanno deciso per il suicidio, uno ogni tre giorni.[5]

È oggi urgente che il legislatore e il suo alter ego la politica trovino il coraggio di fare ricorso agli istituti di clemenza collettiva, l’amnistia e l’indulto, che sono stati costituzionalmente previsti e ampiamente utilizzati nella storia dello Stato italiano proprio per fronteggiare situazioni emergenziali, dalla monarchia alla repubblica passando per il fascismo. Altre soluzioni da adottare, sempre in via d’urgenza, sono l’introduzione della liberazione speciale anticipata, il sistema del “numero chiuso” e il ridimensionamento delle misure cautelari personali intramurarie, riconducendole così ai principi del minor sacrificio possibile e della presunzione di innocenza.[6]

Queste soluzioni potrebbero consentire, nell’immediato e seppur a fatica, di garantire quegli standard minimi affinché l’esecuzione penale intra muraria non concorra a causare il dramma, oramai quasi quotidiano, della morte per pena, ma non sarebbero certo capaci di orientare il mondo penitenziario verso l’orizzonte della pena come integrazione sociale del reo.

Per ripensare in un’ottica costituzionalmente orientata il mondo del carcere è necessario ripensare il ruolo del diritto penale che deve tornare ad essere una extrema ratio nel governo della società.

Attualmente si va in direzione contraria all’assetto assiologico della Costituzione, avendo lo Stato sociale di diritto lasciato il campo ad uno Stato tecnocratico penale, che ha tra i suoi obiettivi l’individuazione e il controllo degli scarti della società a cui, nei casi di maggiore fragilità personale, non resta che scegliere la strada del suicidio ovverosia della morte per pena.[7]  


[1] I detenuti presenti al 29/02/24 sono 60.924, di cui 19.035 stranieri per come risulta dal sito del Ministero della Giustizia https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?contentId=SST462947

[2] Stefano Anastasia, Franco Corleone e Andrea Pugiotto (A cura di), Costituzione e Clemenza, Per un rinnovato statuto di amnistia e indulto, Società della Ragione, 2018.

[3] I detenuti in esecuzione della misura della custodia cautelare in carcere sono 16.199 al 29/02/2024 per come risulta dal sito del Ministero della Giustizia https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?contentId=SST462947

[4] B. Lattanzi e V. Maimone, Errori giudiziari, ecco tutti i numeri aggiornati, 21 maggio 2023, in https://www.errorigiudiziari.com/errori-giudiziari-quanti-sono/

[5] Dato aggiornato al 19/04/24

[6] Riccardo De Vito, Il carcere scoppia? C’è una risposta possibile e razionale: il numero chiuso in www.volerelaluna.it, 2024.

[7] Sergio Moccia, Vite di scarto, in Diritto e Giustizia Minorile, Rivista Trimestrale, 2/3 2014. 

Per citare questo post:

O. Sapia (2024), Sovraffollamento carcerario e morte per pena, in Blog Studi sulla Questione Criminale, https://studiquestionecriminale.wordpress.com/?p=6235