in Lessico di guerra.

Anselm Kiefer, Angeli caduti.

Genocidio1.

di Valeria Verdolini (Unito).

Il termine “genocidio” deriva dalla combinazione di ghénos, “stirpe, famiglia”, e “-cidio” (dal latino caedere, “uccidere”).

Come afferma l’Enciclopedia Britannica, il genocidio fu pratica rintracciabile in tutta la storia umana. Nella ricostruzione proposta si richiama Tucidide, che nel V libro della Guerra del Peloponneso narra come la popolazione di Melo (oggi Milos) fu massacrata dopo aver rifiutato di arrendersi agli Ateniesi. Lo storico greco, tra l’altro, anticipa alcune questioni imprescindibili nella relazione tra massacri e giustizia, ossia la centralità dei rapporti di forza. Nel libro si legge come i delegati ateniesi proponessero di discutere assumendo come riferimento il sympheron, l’utile, e non il dikaion, il giusto, perché: nella considerazione [logos] umana il giusto [dikaia, come complesso dei diritti e dei doveri di ciascuno] viene preferito per una uguale necessità [apo tes ises ananches], mentre chi è più forte fa quello che può e chi è più debole cede. [V, 89, 1]

Già nella Grecia del V secolo, in altre parole, il giusto trova uno spazio di riconoscimento solo se i rapporti di forza fra le parti sono tali che nessuna delle due può prevalere sull’altra. Altrimenti, se si assume il punto di vista del sympheron, basta la forza a risolvere i conflitti, opportuna tanto per il potente quanto per l’utile del debole, che trova vantaggio nel cedere, proprio perché così potrà evitare mali più nefasti.

Sebbene molti eventi possano (o siano stati definiti recentemente come forme di sterminio) si è dovuto attendere il XX secolo per trovare uno spazio lessicale e di riconoscimento del concetto in uso corrente. Raphael Lemkin, un ebreo polacco, cominciò la sua battaglia per vedere riconosciuta una forma di protezione contro le minoranze già nel 1933, poiché, nella sua storia biografica, Lemkin aveva assistito sia allo sterminio degli armeni sia ai pogrom contro gli ebrei. Nella riflessione di Lemkin era centrale il paradosso tra la concretezza della punibilità del singolo omicidio (come reato) e l’assenza di una capacità punitiva per eventi di ordine e grandezza infinitamente maggiore, come i massacri e gli stermini, e ne sollecitò il riconoscimento internazionale.

Lemkin chiese, perciò, che tali crimini venissero ufficialmente riconosciuti a livello internazionale, ben consapevole che l’ufficializzazione normativa rappresentava solamente un mero esercizio di nominazione: “Genocide is a new word, but the evil it describes is old. It is as old as the history of mankind” (Lemkin, 2012).

Una prima definizione di genocidio compare perciò in Axis Rule in Occupied Europe: Laws of Occupation, Analysis of Government, Proposals for Redress (1944), dove il genocidio viene descritto da Lemkin come:

the crime of destroying national, racial or religious groups. The problem now arises as to whether it is a crime of only national importance, or a crime in which international society as such should be vitally interested. Many reasons speak for the second alternative. It would be impractical to treat genocide as a national crime, since by its very nature it is committed by the state or by powerful groups which have the backing of the state.

Il dibattito proposto dall’autore a partire dalla vicenda armena si amplia soprattutto nei confronti delle persecuzioni perpetrate dalla Germania nazista nei confronti di ebrei, rom, sinti, disabili e omossessuali.

Il crimine di genocidio viene riconosciuto ufficialmente solo nel 1946, sull’onda lunga dell’emotività post-bellica, quando l’Assemblea generale dell’Onu lo riconobbe con la Risoluzione n°96, e fu ratificato nella Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide (CPPCG), or the Genocide Convention del 1948 (poi entrata in vigore come Convenzione contro il Genocidio del 1951) in questi termini:

ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.

Per qualificarsi quale crimine, il fatto deve essere connotato anche dal cosiddetto “elemento di contesto”, ovvero è necessario che le condotte (di omicidio, tortura, violenza sessuale) siano state commesse quale parte di un attacco diffuso o sistematico nei confronti della popolazione civile. Tale trasposizione giuridica sconta da subito un limite già individuato dallo stesso Lemkin, ossia la dimensione collettiva che non può ridursi alla responsabilità penale individuale, oltre a dover considerare non solo le azioni ma anche le omissioni. Come ha affermato Penny Green, “Il genocidio è un processo, non un atto”. Tuttavia, la coincidenza temporale ha saldato il rapporto tra storia e fattispecie: per Jeffrey Alexander (2012) parlare di genocidio significa ragionare sul trauma come evento collettivo, declinato non solo come evento sociale ma anche come processo culturale. Nello specifico, il concetto di genocidio evoca tanto il trauma culturale che la Seconda guerra mondiale ha lasciato per lo sterminio degli ebrei e di altre popolazioni ritenute inferiori, quanto la sua produzione di morte su scala industriale (Bauman, 1989).

Ma come si può prevenire un genocidio? Fein ha suggerito che sia la stratificazione etnica a generare crimini di etnia, ribellione e punizioni collettive: la coscienza comune, limitata alla propria etnia, crea esclusivi “universi di obbligo morale” (1977). 

Harff e Gurr (1989) mettono in relazione la potenzialità del genocidio alla presenza e alle dimensioni di “minoranze a rischio” discriminate, ribelli o privilegiate. John Hagan e Wenona Rymond-Richmond, a partire dalle analisi del genocidio in Darfur -uno dei pochi riconosciuti e perseguiti con un mandato ufficiale dall’ICC- hanno affermato che “la violenza collettiva necessita di spiegazioni collettive” (Hagan e Rymond-Richmond, 2008: 136). Secondo gli autori il genocidio parte da un più generale conflitto per risorse simboliche o materiali, in cui le polarizzazioni portano a squilibri di potere, forme di razzializzazione e l’individuazione del nemico come ostacolo alla realizzazione del gruppo dominante (in termini di potere). Questi processi spesso si incrociano a pratiche razziste, che permettono con più facilità non solo la subordinazione sul piano epistemico ma anche la deumanizzazione che rende più semplice l’esercizio della violenza.

Come in Tucidide, differenze di potere nel campo sociale e contesa per le risorse (materiali o simboliche) sono due chiavi di lettura reiterate nei vari casi di genocidio (evocato) e possono incidere sulle determinazioni dei c.d. “elementi di contesto” necessari per descrivere e configurare la fattispecie dei crimini contro l’umanità.

Il problema del potere risulta centrale nella nominazione, nella mancata univocità dell’interpretazione dei fatti in contesti bellici e infine nell’accertamento in sede punitiva. “Il genocidio è una costruzione sociale”, ha dichiarato William Gamson in un discorso presidenziale all’American Sociological Association. Tale affermazione, piuttosto radicale, solleva questioni centrali che sono state spesso il perno della difficile applicazione del crimine in sede penale e giudiziaria. Secondo Nicole Rafter parte dei problemi di applicazione dipendono da un “concorso culturale su chi è il noi, a cui si applicano specifici obblighi morali, e chi è il loro, a cui non si applicano” (Rafter, 2016, p.27). Perciò, è necessario un riconoscimento, ossia un processo di qualificazione di alcuni eventi specifici come genocidio.

Un secondo nodo centrale rispetto a questo crimine riguarda gli attori, ossia chi compie tali atti, e il rapporto tra volontà e responsabilità, tanto individuale, quanto collettiva, dal momento in cui gli attori non sono solo gli esecutori materiali delle uccisioni e delle violenze, ma in tale categoria sono ricompresi anche i mandanti. Nel dibattito giuridico e scientifico che è seguito all’istituzione dei “crimini contro l’umanità” e alla nominazione del genocidio sono stati rintracciati alcuni punti nodali. Stanley Cohen, nel suo libro Stati di negazione (2008) ha individuato quelli che chiama dispositivi retorici, ossia quell’humus discorsivo prodotto dai ideologie, discorsi, narrazioni che posizionano l’uso della violenza in un contesto che la giustifica e che nega le atrocità. Queste forme di scotomizzazione sono processi collettivi spesso attuati come tentativo di confronto con difficoltà emotive e cognitive di gestione del reale. Sono forme di diniego che possono essere prodotte sia a livello individuale che con pratiche culturali o ancora come processi ufficiali; possono essere sincroniche o diacroniche, possono essere proposte tanto dai colpevoli (come forme giustificative), ma anche dalle vittime o dai testimoni (come pratiche di rimozione); possono essere connesse con lo spazio-tempo o ricollocate altrove. Queste forme di negazione fondamentalmente permettono una protezione dell’io di fronte alla responsabilità o come colpevole o come testimone, rispetto soprattutto alla capacità o il dovere morale di intervenire in tale contesto. Tali processi, direttamente o indirettamente connessi con gli eventi, rendono estramamente difficile la giustiziabilità del crimine di genocidio.

Se le forme di persecuzione si presentano con un simile pattern antropologico, questo tuttavia non ha permesso una vera e propria tipizzazione delle fattispecie in sede penale e giudiziario, in parte perché la costruzione dell’intento genocidario è di difficile riconoscimento, in parte per la macchinosità degli apparati di accountability.

Come ha affermato Danilo Zolo, la Convenzione contro il Genocidio ha creato un sistema repressivo particolarmente ambizioso: ogni Stato che abbia ratificato le convenzioni è tenuto a ricercare, arrestare e processare le persone accusate di crimini di guerra, in base al principio aut dedere aut judicare. Ci sono problemi che riguardano l’ambito processuale, poiché sono numerose le difficoltà per dimostrare tanto il dolo generico per la commissione dell’atto in sé, quanto il necessario dolo specifico, ossia l’intento di eliminare del tutto o in parte un gruppo etnico, razziale, nazionale o religioso.

In concreto, la definizione di genocidio prevede tanto un fattore materiale (il massacro), quanto un elemento più psicologico/politico, ossia l’intenzionalità.

Proprio tale aspetto ha reso molto complesso la possibilità di perseguire tali azioni, oltre alle specifiche difficoltà di individuazione di una corte idonea per giudicare questo tipo di crimini, difficoltà paradossale perché la seconda metà del XX secolo ha rappresentato, mutuando le parole di Sikkink (2011) una vera e propria “cascata di giustizia”. In primis, questo ampliamento degli strumenti punitivi si è dipanato in un lungo percorso che dal 1945 ha visto la creazione della Corte Internazionale di giustizia dell’Aja (ICJ),  destinata a risolvere le controversie tra Stati; la celebrazione dei processi di Norimberga; l’istituzione di due tribunali ad hoc, ossia l’ICTY per la ex Jugoslavia (istituita nel 1993) e l’ICTR per il Rwanda (nel 1994). Queste Corti hanno ricevuto molteplici critiche sia dal punto di vista della loro legittimità, sia perché la loro giurisprudenza ha indebolito l’apparato processuale proprio alla luce della delicatezza dei reati trattati e il valore fortemente “politico” dei crimini (come nel caso specifico del genocidio). In ambito internazionale, tuttavia, le Corti sono state accolte con grande favore, per aver prodotto comunque risultati in termini di accountability dei reati. Le considerazioni di tipo etico (e politico) si confondono così con la funzione giudiziaria. Come ha affermato Ralph Henham, “The crucial issue of dissent is whether justification through international law can and should be replaced by the unilateral, world-ordering politics of a self-appointed hegemony” (Henham, 2003). Proprio per questa influenza del politico, molti autori -tra cui Zolo- hanno parlato di “giustizia dei vincitori”.

Un superamento sul piano formale era stato immaginato con la creazione dell’ICC, ossia una Corte penale internazionale con competenza specifica e giurisdizione universale per processare tali crimini. Nello Statuto di Roma che la istituisce nel 1998, viene ripresa ladefinizione di genocidio, prevista come base del sistema processuale della nuova Corte.

La Corte ha iniziato ad operare nel 2002. Come aveva affermato l’allora presidente Kofi Annan, “This cause…is the cause of all humanity​”. Tuttavia, la battaglia sull’impunità dei crimini contro l’umanità si è arenata sulla ratifica proprio dello Statuto di Roma che l’ha istituita. Al momento, lo Statuto è stato ratificato da 123 paesi2. Tra le grandi assenze, si registrano Stati Uniti, Russia, Cina, Israele, Ucraina3, Bielorussia, Siria, Iraq, Yemen. L’ICC in ogni caso ha operato, indagandoin particolare Bashir sul caso del genocidio in Darfur, anche se gli analisti sono concordi nell’individuare una sovrapposizione della Corte con una vera e propria linea del colore (pur mantenendo autonomia e indipendenza giurisdizionale).

Ad oggi il genocidio viene problematizzato in varie direzioni: c’è stato un ampliamento della definizione, tentando di inserire il cd. “Genocido culturale”, o ancora un allargamento in grado di includere non solo le violazioni coloniali, ma anche un’estensione in grado di assorbire le forme di persecuzione politica. É il caso ad esempio dei tentativi di accountability per genocidio delle popolazioni indigene canadesi, o ancora i tanti stermini che sono stati parte dei processi di colonizzazione da quello del Nord America con lo sterminio delle popolazioni indigene a quelli in Africa e Asia perpetrati dai vari paesi Europei. E ancora, c’è chi riscontra un Genocidal intent nelle ideologie e pratiche del “settler colonialism”, come ha affermato l’antropologo Laban Hinton. Un secondo asse è quello che riflette su come la piena giustiziabilità dei diritti si possa conciliare con dei modelli di pace, quasi una versione in positivo che lavori sulla prevenzione e non solo sull’accertamento delle responsabilità. Si tratta di un modello proposto da Norberto Bobbio, che nel saggio I problemi della guerra e le vie della pace, ha ripreso i temi kelseniani e rilanciato un “pacifismo istituzionale” che potrebbe trovare nella giustiziabilità dei diritti un forte strumento di tutela della pace. E ancora, Luigi Ferrajoli (2023) ha ampiamente evocato tanto una Costituzione della Terra quanto una Corte davvero efficace per combattere questi “crimini di sistema”. Contro questa visione positiva dell’esigibilità e implementazione dei diritti umani, sia Zolo (2000; 2006) che Moyn (2011; 2014) hanno avanzato dure critiche all’uso politico strumentale dei diritti umani nel perseguimento di politiche egemoniche da parte dei potenti. In questa polarizzazione tra l’ottimismo normativo che individua la giustizia per questi crimini come “unico scopo dell’umanità” e il pessimismo potestativo che diffida dalla neutralità dell’esportazione della democrazia, mai come in questi ultimi due anni le dicotomie interpretative e gli strumenti giuridici sono stati dipanati nel dibattito pubblico, per trovare risposte al costante esacerbarsi delle violenze e demi massacri. Se un tempo gli strumenti erano carenti, oggi ci si confronta con la difficoltà in concreto di perseguire attivamente le violenze, soprattutto nelle fasi in cui si dispiegano. Al momento sono in corso presso l’ICC indagini preliminari nei confronti di eventi avvenuti in 16 paesi4. Sono paradigmatici per l’attenzione rivolta e per i paesi implicati in particolare il caso dell’Ucraina e della Palestina che da una parte evocano il c.d. doppio standard nelle forme di attivazione delle corti, e dall’altra hanno restituito maggiormente i limiti delle Corti e il rapporto stretto che persiste tra forme di potere e giustiziabilità. Nel caso ucraino, la Corte internazionale di giustizia (ICJ) ha pronunciato la sua ordinanza nella controversia Ucraina c. Russia, ordinando alla Russia di sospendere immediatamente “le operazioni militari cominciate il 24 febbraio 2022 sul territorio dell’Ucraina”. Come ricostruisce Chantal Meloni (2022), il Procuratore della Corte penale internazionale (ICC) si è recato in Ucraina, dove ha incontrato di persona la Procuratrice generale (e virtualmente anche il Presidente, Volodymyr Zelenski), e in Polonia, per avviare una stretta cooperazione, si sono susseguite le proposte per l’istituzione di un tribunale ad hoc con giurisdizione per il crimine di aggressione. Dopo le proteste di piazza Maidan del 2013, infatti, la corte aveva già attenzionato l’Ucraina, pur non essendo tuttora l’Ucraina uno Stato parte della Corte (non avendone (ancora) ratificato il trattato istitutivo – lo Statuto di Roma del 1998 –), ma in ogni caso, a seguito dei gravi eventi del 2013 l’allora Governo ucraino aveva presentato una dichiarazione ai sensi dall’art. 12(3) dello Statuto della Corte, accettando la giurisdizione ad hoc. Nel 2022, 41 Stati firmatari, su iniziativa iniziale della Lituania, hanno affermato di avere “deciso di riferire la Situazione in Ucraina al Procuratore della Corte penale internazionale al fine di richiedere al Procuratore di indagare ogni atto integrante crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, potenzialmente commessi sul territorio dell’Ucraina dal 21 novembre 2013 in avanti, incluse le attuali denunce di commissione di crimini in corso su tutto il territorio ucraino, con ciò chiedendo alla Corte di esercitare la sua giurisdizione rispetto all’ambito di accettazione [di giurisdizione della Corte] da parte dell’Ucraina”. Nell’agosto 2022, Gyunduz Mamedov, Vice Procuratore Generale dell’Ucraina dal 2019 al 2022, ha dichiarato che la deportazione dei bambini ucraini in Russia (più di 300.000 secondo la Federazione Russa) ha rappresentato il modo più promettente per dimostrare il genocidio. Il 17 marzo 2023, a seguito di un’indagine su crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, l’ICC ha emesso mandati di arresto per Vladimir Vladimirovich Putin, Presidente della Federazione Russa, e Maria Alekseyevna Lvova-Belova, Commissario per i Diritti dei Bambini nell’Ufficio del Presidente della Federazione Russa. Sulla base delle richieste della Procura del 22 febbraio 2023, la Pre-trial Chamber ha ritenuto che vi siano ragionevoli motivi per credere che ciascun sospettato sia responsabile del crimine di guerra della deportazione illecita della popolazione (bambini) e di trasferimento illecito della popolazione (bambini) dalle aree occupate dell’Ucraina alla Federazione Russa, a pregiudizio dei bambini ucraini. I 123 Stati membri dell’ICC sono obbligati a detenere e trasferire Putin e Lvova-Belova se uno dei due mette piede sul loro territorio.

La questione rispetto al conflitto tra Israele e Palestina è ancora più articolata. Già nel 2009, il giudice sudafricano Richard Goldstone è stato nominato come presidente della United Nations Fact Finding Mission on the Gaza conflict, ossia una commissione nominata dall’Onu all’indomani dell’operazione militare “piombo fuso” e finalizzata a documentare e analizzare le violazioni del diritto internazionale commesse da entrambe le parti. La commissione ai tempi aveva affermato: “Una cultura dell’impunità è esistita troppo a lungo nella regione. La mancanza di accertamento delle responsabilità per crimini di guerra e possibili crimini contro l’umanità ha raggiunto il suo punto di crisi; la perdurante mancanza di giustizia sta mettendo a repentaglio ogni speranza di riuscita di un processo di pace e sta rinforzando un clima di violenza” (United Nations Human Rights Council, 29.9.2009) ed ea giunta alla conclusione che “ciò che è avvenuto in poco più di tre settimane a fine 2008, inizio 2009 (a Gaza) è stato un attacco deliberatamente sproporzionato organizzato per punire, umiliare e terrorizzare una popolazione civile, diminuire radicalmente la sua capacità economica sia di lavorare sia di provvedere a sé stessa, e di imporle con la forza un senso di sempre crescente dipendenza e vulnerabilità”. Il caso Palestina è oggetto, oggi, di due distinti procedimenti.

Un primo procedimento si sta svolgendo davanti all’ICC: L’ICC dal 2021, infatti, stava indagando per gli eventi commessi a partire dal 13 giugno 2014, data a cui si fa riferimento nella segnalazione del caso  all’Ufficio del Procuratore Il 3 marzo 2021, inoltre lo stesso Procuratore ha annunciato l’apertura dell’indagine sulla “situazione” nello Stato di Palestina, inteso principalmente come territori occupati. A tale intervento, è seguita la decisione della Camera preliminare I il 5 febbraio 2021 che ha affermato che il Tribunale può esercitare la sua giurisdizione penale nel territorio e, a maggioranza, che la portata territoriale di questa giurisdizione si estende a Gaza e alla Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est. Dopo gli eventi del 7 ottobre, i canali di attivazione sono stati molteplici. Da una parte, Alice Jill Edwards, Special Rapporteur on torture and other cruel, inhuman or degrading treatment or punishment; e Morris Tidball-Binz, Special Rapporteur on extrajudicial, summary or arbitrary executions hanno avviato una procedura speciale che chiede accountability per le vittime di stupri e omicidi illegittimi durante gli attacchi del 7 Ottobre 2023. A fronte del protrarsi dei bombardamenti su Gaza, il 17 novembre 2023, Sudafrica, Bangladesh, Bolivia (Stato Plurinazionale di), isole Comore e Gibuti hanno sottoscritto un referral sull’esacerbarsi delle violenze nel contesto della striscia di Gaza. In conformità allo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, infatti, uno Stato Parte può segnalare al Procuratore una situazione in cui sembra siano stati commessi uno o più crimini di competenza della Corte, chiedendo al Procuratore di indagare sulla situazione al fine di determinare se una o più persone specifiche debbano essere incriminate per la commissione di tali crimini. L’indagine in corso è iniziata il 3 marzo 2021 e riguarda comportamenti che potrebbero configurare crimini compresi nello Statuto di Roma commessi dal 13 giugno 2014 nella Striscia di Gaza e nella Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est. È in corso e si estende all’escalation delle ostilità e della violenza dai attacchi avvenuti il 7 ottobre 2023. In conformità allo Statuto di Roma, il Procuratore ha giurisdizione sui crimini commessi sul territorio di uno Stato membro e nei confronti dei cittadini degli stati membri, e in questo caso lo Stato Palestinese ha ratificato lo Statuto di Roma. In parallelo, però, è stato avviato un secondo procedimento in sede di ICJ, che parte dal Sudafrica contro Israele sulle questioni della Palestina, grazie all’art. 36 della convenzione sul Genocidio sottoscritta da tutti i paesi coinvolti. L’ICJ si è pronunciata il 26 gennaio 2024, riconoscendo non solo la legittimità della richiesta in termini di giurisdizione e competenza, ma anche richiamando l’art. III della Genocide Convention5, affermando che le richieste mosse dal Sudafrica sono plausibili, e che “Israele debba, in in conformità con i suoi obblighi ai sensi della Convenzione sul genocidio, in relazione ai palestinesi di Gaza, adottare tutte le misure in suo potere per impedire la commissione di tutti gli atti che rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo II di questa Convenzione (…). La Corte ricorda che questi atti rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo II della Convenzione quando sono commessi con l’intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo in quanto tale (cfr. paragrafo 44 supra). La Corte ritiene inoltre che Israele debba garantire con immediatezza che le sue forze militari non commettano nessuno degli atti sopra descritti”. La pronuncia sul presente in qualche modo apre ad una situazione nuova, proprio perché non si tratta più di acclarare crimini passati, ma di prevenire la loro prosecuzione, con una sincronicità tra strumenti penali e commissione dei crimini che non ha visto delle modifiche significative nelle condotte, reiterate (nei casi esaminati) a prescindere dall’andamento dei procedimenti a carico dei singoli e degli Stati (esempio è l’assenza della richiesta di un cessate il fuoco) Al momento, le seppur apprezzabili innovazioni e creazioni giudiziarie non riescono tuttavia ad alterare il corso dei rapporti di forza e delle strategie politiche in campo. E sempre più, almeno nelle percezioni della scrivente, il pessimismo potestativo tende a prevalere sull’ottimismo normativo e sulla fiducia nella giustizia internazionale, nonostante in quest’ultima pronuncia l’ICJ abbia dimostrato più coraggio di quanto avvenuto nei casi precedenti.

Recentemente (il 27 marzo 2024), infine, il tema è stato problematizzato ampiamente durante lo Human Rights Council di Ginevra dove la UN Special Rapporteur on human rights in the Palestinian territories, Francesca Albanese ha parlato di “Anatomy of a Genocide”. In particolare, la Special Rapporteur nel suo report afferma che Israele ha commesso almeno tre degli atti ritenuti come genocidari dalla medesima Convenzione: “Killing Members of the Group”, “Causing serious bodily or mental harm to members of the group” e “Deliberately inflicting on the group conditions of life calculated to bring about its physical destruction in whole or in part”. Inoltre, la Rapporteur ha sostenuto che l’intento è rinvenibile nella natura e nella scala delle atrocità commesse e che le parole delle autorità statali, compreso il linguaggio disumanizzante, combinate con gli atti, sono da considerarsi come una ulteriore base indiziaria. Infine, ha rilevato che gli atti di genocidio sono stati approvati e resi effettivi a seguito di dichiarazioni di intenti genocidari rilasciate da alti funzionari militari e governativi. In esergo al saggio su Norimberga David Luban ha richiamato la celebre frase di William Faulkner, tratta da Requiem for a nun: “the past is never dead; it is not even past”, che ben sintetizza come dall’eccidio di Melo/Milos ai fatti odierni il rapporto tra squilibrio di potere e utilità sia rimasto sbilanciato e come uno strumento di tutela come il crimine del genocidio, in uno spazio giuridico non neutro come quello del diritto penale internazionale, rappresenti -oggi più che mai- un campo di battaglia politico. Proprio per questo le forme di prevenzione devono partire dalle battaglie sui diritti, unica vera forma di prevenzione e non dai tentativi ex post di gestione delle responsabilità dirette o indirette. Altrimenti, oggi più di ieri, quelle disuguaglianze e disparità di potere da parte di gruppi o Stati che hanno attraversato la storia umana e spesso (come in questi casi) manifestano ricadute anche sul presente, saranno la stessa miccia che attiverà, oggi come ieri, nuovi conflitti.

Per citare questo post:

V. Verdolini (2024), Genocidio, al link: https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2024/05/03/genocidio/

Puoi seguire il Lessico di guerra a questo link: Lessico di guerra


  1. Questo pezzo è debitore ai dibattiti e al lavoro a quattro mani svolto con Teresa Degenhardt nella stesura del capitolo Crimini di Stato, genocidio e forme di giustiziabilità dei diritti umani su scala internazionale, in Pitch, T. (a cura di) Devianza e questione criminale, temi, problemi e prospettive, Carocci, Roma, 2022.  ↩︎
  2. Di questi, 33 sono Stati africani, 19 sono Stati dell’Asia e del Pacifico, 18 sono paesi dell’Europa orientale, 28 sono Stati dell’America Latina e dei Caraibi, e 25 sono Stati dell’Europa occidentale e altri Stati. ↩︎
  3. L’Ucraina non è Stato parte ma ha accettato ad hoc la giurisdizione della Corte sin dal 2014. Non a caso la Corte ha potuto spiccare già 4 mandati di arresto nella situazione ucraina, di cui uno a carico del presidente della Federazione Russa Vladmir Putin. ↩︎
  4. [1] Si tratta di Uganda, Repubblica democratica del Congo, il Darfur (Sudan), la Repubblica Centrafricana, il Kenya, la Libia, la Costa d’Avorio, il Mali, la Georgia, il Burundi, il Bangladesh/Myanmar, l’Afghanistan, le Filippine, il Venezuela e in tempi recentissimi Ucraina e Stato palestinese. ↩︎
  5. The following acts are also prohibited by the Convention: conspiracy to commit genocide (Article III, para. (b)), direct and public incitement to commit genocide (Article III, para. (c)), attempt to commit genocide (Article III, para. (d)) and complicity in genocide (Article III, para. (e)). ↩︎

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