Abbiamo il piacere di pubblicare l’accurata recensione di Giso Amendola (Università di Salerno) all’etnografia di Xenia Chiaramonte, condotta sul movimento No Tav e sul suo processo di criminalizzazione mediatica e giudiziaria. Un caso singolare, capace di illuminare anzitempo le dinamiche del laboratorio autoritario neoliberale e di cogliere  l’intreccio fra forme di resistenza e governo penale del dissenso.

Ringraziamo Giso Amendola per il post. Buona lettura!

Recensione di “Governare il conflitto: la criminalizzazione del movimento No Tav” (2019, Meltemi)

di Giso Amendola

 

Governare il conflitto. La criminalizzazione del movimento No Tav (Meltemi, 2019) di Xenia Chiaramonte, offre probabilmente lo studio più ampio attualmente disponibile sulla vicenda complessiva dell’impatto sul movimento No Tav dei processi di criminalizzazione, che su più piani e in diversi modi, hanno caratterizzato la sua lunga vicenda. Non mancano certo studi ispirati alla sociologia dei movimenti sociali, né ricostruzioni della sua fondamentale storia militante e politica: abbiamo disponibili anche importanti ricerche etnografiche e di osservazione partecipata che ci hanno restituito le trasformazioni di questa lunga realtà di diffusa resistenza al progetto di attraversamento della Val di Susa e ai lavori del cantiere. Anche dal punto di vista giuridico e delle politiche di ordine pubblico, il Movimento No Tav ha prodotto interesse e sollecitato indagini. La particolarità dello studio di Chiaramonte consiste però precisamente nel provare a leggere simultaneamente quello che il più delle volte è stato oggetto di indagini separate, offrendo così diversi spunti, già di ordine metodologico, sia alla criminologia critica sia alla sociologia dei movimenti politici, e, infine, alla discussione politica generale.

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Va subito precisato: il “governo del conflitto” cui allude il titolo non si limita ai temi dell’ordine pubblico, evidentemente di interesse più immediato e, infatti, più studiati. Né sceglie esclusivamente la strada dell’analisi giuridica e delle vicende processuali. Chiaramonte mette in campo, infatti, un uso del concetto di criminalizzazione come processo complessivo di etichettamento che attraversa la creazione di discorso usando i mass media, la gestione dell’ordine pubblico e delle forze di polizia, e, insieme, l’incontro con il campo processuale e dei dispositivi di prevenzione, di sicurezza e di controllo. La criminalizzazione è restituita così come un campo complesso, differenziato al suo interno. Una produzione di discorsi che insistono su livelli eterogenei la cui coerenza interna non è assicurata in partenza, né è descrivibile come un processo unitario, ma piuttosto come una serie di connessioni funzionali che mettono in gioco differenti principi ispiratori e meccanismi di funzionamento. Non a caso, Chiaramonte fa più volte riferimento al titolo di un intervento del 1979 di Foucault, Strategia dell’accerchiamento, in materia di repressione dei movimenti sociali anche se, ancor più significativamente, preferisce sostituire il riferimento foucaultiano alla strategia con un richiamo alle “tattiche”. In questo modo, enfatizzando l’elemento tattico, l’analisi differenzia e al tempo stesso connette i diversi momenti critici e i diversi livelli in cui si è articolato il processo di criminalizzazione. In primo luogo, si ricostruisce la produzione del frame del “pericolo” del “contagio” rispetto alla popolazione “civile” da parte dei mass media: qui appare ben presto l’immagine del “gruppo dei violenti” identificati, di volta in volta, come anarchici, insurrezionalisti, non appartenenti alla Valle, fino all’evocazione del black bloc, trasformato di una tattica da corteo degli anni Novanta nel fantasmatico soggetto “nero” che anima così spesso le cronache giornalistiche nostrane. Chiaramonte segue con attenzione la costruzione di questo discorso sui “pericolosi”, dai “300 anarchici” chiamati in causa alla prime manifestazioni di massa sino, appunto, al black bloc: ma soprattutto mostra come questo frame del pericolo condizioni e sia a sua volta rafforzato, in modo circolare, dalla strategia processuale. Tanto che le evocazioni dei “pericolosi”, a partire dai famosi 300 anarchici, passano testualmente e letteralmente dai media alle relazioni di polizia e da qui agli atti processuali. Così, la strategia del “maxiprocesso”, iniziato nel 2013 per lo sgombero e la rioccupazione della “Repubblica della Maddalena” del 2011, potrà configurarsi come un processo collettivo, in cui l’attribuzione delle responsabilità personali non potrà che diventare irrilevante a priori. Sarà, infatti, il movimento in quanto tale ad essere configurato come una pericolosa matrice di violenza politica, e il vero oggetto del processo diventerà da un lato la ricostruzione delle storie soggettive dei rei, un processo alla vita stessa degli attivisti tutto segnato dall’evocazione della pericolosità, dall’altro lato l’attribuzione della responsabilità sulla base della sola presenza sul luogo dei disordini, di per sé indice di partecipazione concorsuale a qualsiasi evento, da chiunque commesso, nell’ambito della stessa circostanza. Sulla base di questa continua evocazione della pericolosità sociale collettiva, diventa meno sorprendente il tentativo (poi bocciato in Cassazione, ma che pure ha prodotto una storia processuale che ha inciso in modo rilevante sul movimento) di mettere in campo le accuse di associazione sovversiva e di terrorismo. In fondo, osserva Chiaramonte, proprio nel momento in cui viene sollevata la questione in termini di sovversione e di terrorismo, diviene anche esplicito cosa è “messo in pericolo” dal movimento No Tav: la difesa dell’opera, del cantiere, o anche delle maestranze che di volta in volta sono chiamati in causa come obiettivi che vanno difesi dal rischio costituito dalle azioni dei No Tav, sono soltanto le espressioni particolari della logica generale di “difesa sociale” che tutta la vicenda sottintende.

“Bisogna difendere la società”, non tanto l’opera. E qui Chiaramonte mostra molto bene come la difesa della società si sdoppi: è certo la difesa politica “classica”, la difesa dell’obbligazione politica, dell’autorità dello Stato. Ma questo tipo di discorso evolve e si trasforma in qualcosa che non ha molto più a che fare con il linguaggio classico della sovranità, entro il quale si sviluppava la narrazione sulla difesa sociale. Si tratta piuttosto, ora, della difesa delle condizioni di certezza basilari per il funzionamento del circuito degli investimenti, della costruzione del mercato globale, dei nessi logistici della mobilità di uomini e merci.

Al di là della retorica continuamente ribadita (e finalizzata alla decontestualizzazione degli eventi) del “processiamo solo i fatti, non le ragioni politiche”, questa logica politica che innesta l’una sull’altra sovranità e proprietà, difesa sociale e neoliberalismo riemerge continuamente, in modo anche esplicito, nelle stesse vicende processuali. Chiaramonte, per esempio, registra la significativa dichiarazione a questo proposito dell’Avvocatura dello Stato (e il libro chiarisce anche come si trasforma dentro queste vicende la stessa funzione della “difesa dello stato” da parte dell’Avvocatura, non a caso attivissima): i territori devono essere tenuti liberi e sicuri per le esigenze di prevedibilità e stabilità richieste dagli investitori.  Bisogna difendere lo Stato e, insieme, difendere la società: ma la società è ora continuamente tracciata e ritracciata dai flussi globali.

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Dal punto di vista dello studio dei processi di criminalizzazione, questa inserzione di comando autoritario e di produzione di soggettività neoliberale, è restituita esattamente da Chiaramonte come messa in opera di una doppia logica. La prima è quella, di lunga tradizione criminologica, della difesa sociale e dell’eredità positivistica. E’ quella tradizione che costituisce il “sapere implicito” sui movimenti sociali, messo continuamente in opera ai vari livelli dei processi di criminalizzazione: pericolo, contagio, evocazione della responsabilità collettiva, dove responsabilità collettiva significa sostanzialmente pericolosità implicita nella irrazionalità intrinseca della massa (insiste opportunamente Chiaramonte sulla derivazione dalla psicologia delle masse a cavallo tra Otto e Novecento di gran parte del linguaggio messa all’opera da tale sapere implicito sui movimenti).

Ma questa lunga tradizione positivistica della difesa sociale e della pericolosità produce oggi – altra traccia di marca foucaultiana seguita da Chiaramonte – un effetto di diffusione e moltiplicazione: si moltiplicano sia i dispositivi messi all’opera nei processi di criminalizzazione, sia i punti di attacco di tali processi. Il “reato” finisce per coincidere con la vita stessa del “reo”, il suo accertamento con il controllo prolungato dei suoi comportamenti, con l’indagine sulle sue inclinazioni e sulle sue attitudini.

Contemporaneamente, l’estrema individualizzazione di queste strategie va di pari passo con l’estensione governamentale del controllo all’intera popolazione, di cui si previene e si cura l’esposizione al rischio di contagio e di diffusione del disordine e della mai meglio definita “violenza”. La criminalizzazione viaggia ora lungo una instabile e “tattica” connessione tra logiche macro e logiche micro; logica della difesa sociale e dell’eredità positivistica, difesa dello stato e del comando politico nel segno dell’individuazione del nemico interno e del processo penale “di lotta” contro tale nemico: ma, allo stesso tempo, estensione e trasformazione governamentale del controllo della popolazione e moltiplicazione dei dispositivi, secondo un’altra direttrice, rispondente piuttosto ad un’economia degli illegalismi e alla loro selezione/gestione. Il decifrare l’innesto reciproco e mai perfetto e senza attrito di queste logiche eterogenee è il primo fondamentale senso del “governo” evocato nel titolo del lavoro.

Foucault non è però richiamato da Chiaramonte solo al fine di leggere la moltiplicazione dei dispositivi di criminalizzazione e la traduzione governamentale/neoliberale della difesa sociale. Il lavoro si spinge anche verso un altro orizzonte. L’ipotesi foucaultiana segna infatti anche una traccia “oltre la criminalizzazione”. O meglio, oltre la stessa ipotesi repressiva:

i dispositivi di criminalizzazione non possono essere studiati in modo separato rispetto alle resistenze su cui essi si distendono. E ciò non solo per una scelta etico-politica della ricercatrice o del ricercatore sociale al fianco dei movimenti sociali, ma proprio per una precisa esigenza di metodo.

La stessa descrizione/interpretazione delle trasformazioni della difesa sociale, come l’abbiamo letta in precedenza, la stessa moltiplicazione/governamentalizzazione di quei dispositivi, dipendono dall’azione dei movimenti sociali, corrispondono, o provano a rispondere, ai movimenti delle soggettività sociali. Anzi, sempre ricordando Foucault, non soltanto dove c’è potere c’è resistenza, ma la resistenza viene prima, e viene prima già sul piano analitico. Qui incontriamo l’ambizione più forte del libro, e il suo apporto che probabilmente richiede maggiore impegno e un’attenta discussione, ma che è senz’altro condivisibile, proprio come contributo a un programma per la critica del diritto:

problematizzare la separazione tra criminologia critica e studio dei movimenti sociali. Non tenere separato il campo degli studi sulla criminalizzazione da quello sui processi di soggettivazione politica: altrimenti, si approda inevitabilmente a una visione vittimizzante dei processi di criminalizzazione e piuttosto angelicata (e depoliticizzante) dei movimenti sociali.

Riaprire una relazione problematica tra criminologia e inchiesta sui movimenti sociali eviterebbe un doppio rischio: quello di bloccare la criminologia critica sull’ipotesi repressiva, e sull’analisi dei dispositivi di controllo/disciplina, producendo una criminologia astratta rispetto all’azione delle soggettività, e una sorta di oggettivazione della devianza (salvo semmai reagire attraverso estemporanee romanticizzazioni della devianza stessa); e dall’altro lato, di recintare l’inchiesta sui movimenti sociali all’interno di una sociologia dei movimenti, che ne elude la relazione con il “politico” e ne mette tra parentesi gli elementi conflittuali.

Un ottimo esempio di come si può tenere aperta questa dinamica tra controllo e resistenza mi sembra essere offerta dall’etnografia “giudiziaria” presente in questa ricerca, dall’intreccio della lettura dei materiali processuali con l’inchiesta, le interviste e le testimonianze. Chiaramonte riesce infatti a evidenziare come proprio la messa in campo di un sapere implicito sui movimenti, tutto incentrato sulla loro descrizione in termini di pericolosità, ricavata a sua volta dalla “storia” e dai “precedenti”, insomma proprio la piega che i processi assumono come creazione continua di “figure” di rei, piuttosto che di giudizio sui fatti di reato, riapre continuamente lo spazio alla resistenza, all’interno della stessa dinamica processuale. Non tanto nelle forme classiche del rifiuto del processo, quanto di aperture di momenti di rottura e di rivendicazione all’interno stesso del processo, che lo costringono a sua volta continuamente a trasformarsi.

Se è la vita della popolazione ad essere portata dentro la dinamica di criminalizzazione, è del resto inevitabile che la vita dei soggetti apra continui squarci all’interno della procedura, rompendo continuamente la unilateralità della criminalizzazione stessa.  Il processo diventa esso stesso luogo di militanza, ma soprattutto di una presa di parola “vera” da parte dei resistenti, contro la creazione degli stereotipi della pericolosità sociale.

Il governo del conflitto evocato nel titolo del lavoro significa quindi integrazione di difesa sociale e governamentalità, nel segno di una sempre più evidente riformulazione autoritaria del neoliberalismo. In questo senso, risulta tutta da sviluppare, ma centrale, la pista di riflessione aperta nell’ultimo capitolo e nelle conclusioni del volume.

Qui, la vicenda della resistenza No Tav e della trasformazione dei dispositivi di governo e di criminalizzazione, viene molto opportunamente proiettata sullo spazio della riconfigurazione globale dei rapporti di potere, e dello stesso ruolo della sovranità nel neoliberalismo globale. Lo stato, lungi dal declinare, appare però sempre più inserito all’interno dei dispositivi di estrazione del valore globale: come riserva di autorità, come regolatore della mobilità e dei flussi, sempre tra i tanti, e senza poter accampare particolari pretese “sovrane”; come strumento di controllo biopolitico delle vite. La conclusione del lavoro di Chiaramonte, dedicata anche alla discussione delle vicende della repressione contro i No Tav in sede al Tribunale Permanente dei Popoli, apre a un’analisi critica della repressione, quale connessione calata dentro la connessione dei movimenti globali e inserita all’interno del funzionamento dei regimi sovranazionali di controllo.

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È solo dentro la costruzione delle reti logistiche sovranazionali che la vicenda No Tav assume davvero tutta la sua esemplare importanza: in definitiva, l’autentico obiettivo di questa nuova forma, moltiplicata e governamentale, di difesa sociale, il vero incubo denunciato con ossessività dai discorsi di criminalizzazione, è sempre stato, per dirla con le parole del procuratore Caselli ricordate da Chiaramonte, quello dell’instaurarsi di uno spazio “sottratto alla sovranità statale” all’interno dello stato “sovrano”. Certo sembrerebbe ridicolmente sproporzionato ritenere la “Libera Repubblica della Maddalena”, un presidio di movimento, un pericolo per la sovranità dello stato o l’incubatrice di una secessione. Ma forse, come spesso accade, la criminalizzazione fa affiorare un momento di verità, al di là di ogni esagerazione retorico-repressiva o romantico-militante: è evidente infatti che, dentro i nuovi meccanismi di estrazione del valore che riconfigurano del capitale globale, quello che è eminentemente pericoloso è proprio la creazione di autonome strutture di riproduzione sociale come quelle che il movimento No Tav ha saputo costruire e mantenere. Sono esempi di “istituzioni non sovrane” che possono generare contropotere, e sono il terreno di sfida più avanzato rispetto al controllo della mobilità e dei flussi, alle costruzioni di connessioni “logistiche” che assicurano la continua costruzione e ricostruzione delle reti del capitale globale. In questa luce, come appunto è apparso chiaro quando della repressione nei confronti dei No Tav s’è potuto discutere in sedi transnazionali e in prospettiva globale, ci si spiega più facilmente perché, contro la costruzione di quelle esperienze, la riconfigurazione dei dispositivi di criminalizzazione sia stata costante, e abbia dovuto spingersi sino a denunciare il pericolo della sovversione. Ha ragione Xenia Chiaramonte: analizzare a fondo la criminalizzazione, spinge a fuoriuscire dal “racconto della repressione”, e a inoltrarsi nel cuore della forza politica delle resistenze.

Per citare questo post:

Amendola G. (2020), “Governare il conflitto: la criminalizzazione del movimento No Tav”. Recensione di Giso Amendola al libro di Xenia Chiaramonte; post pubblicato in Studi sulla questione criminale online, consultabile all’indirizzo: https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2020/01/20/governare-il-conflitto-la-criminalizzazione-del-movimento-no-tav-recensione-di-giso-amendola-al-libro-di-xenia-chiaramonte