di Vincenzo Scalia – Università di Firenze

La vicenda di Alfredo Cospito, militante anarcoinsurrezionalista condannato all’ergastolo ostativo, e da oltre due mesi in sciopero della fame per protestare contro una sentenza ingiusta e spropositata, esemplifica sia l’ipertrofia giudiziaria sia i rapporti di forza che si vanno strutturando nel nostro Paese a livello politico.

Nel 2014 Cospito viene riconosciuto colpevole di avere ferito il dirigente di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, e condannato a 10 anni e otto mesi di carcere. A questa condanna, nei mesi scorsi, se ne sono aggiunte altre due. La prima è quella di essere a capo di un’organizzazione terroristica, che gli ha fruttato altri 20 anni di reclusione. La seconda, quella di avere attentato alla personalità interna dello Stato, in seguito allo scoppio di due bombe carta davanti a una caserma dei Carabinieri, ha portato la Cassazione ad elevare la pena fino all’afflizione dell’ergastolo ostativo, con tanto di reclusione al 41 bis.

Le decisioni prese ai danni del militante anarcoinsurrezionalista sembrano connotarsi per il loro carattere afflittivo e vessatorio, e forniscono lo spunto per una serie di riflessioni.  Innanzitutto, appare arbitraria la qualifica di “capo di organizzazione criminale”. La questione del vincolo associativo rappresenta una delle questioni più controverse all’interno della sfera penale. Quante persone sono necessarie affinché ci si possa trovare in presenza di un’organizzazione? Come va quantificata e qualificata la questione temporale? Nel passato, per esempio nel caso delle Brigate Rosse, che rivendicavano la loro natura di organizzazione rivoluzionaria, la questione era stata relativamente semplice, anche se la distinzione tra “regolari”, “irregolari”, fiancheggiatori e simpatizzanti qualche problema lo poneva. Non a caso, ne seguirono condanne irrogate con criteri non sempre lineari ed equi, che provocarono più di una perplessità, anche in relazione all’utilizzo della legislazione premiale.

Soprattutto, bisogna contestualizzare il periodo storico. Le organizzazioni politiche clandestine come l’IRA, le BR, ETA, la guerriglia palestinese, sorsero e si svilupparono in un contesto politico a forte predominanza dello Stato-Nazione, all’interno di un’economia fordista, improntata alla produzione di massa. Di conseguenza, il loro modello organizzativo non poteva non ricalcare la struttura verticistica e capillare delle aziende e la burocrazia degli Stati. La globalizzazione, la caduta del Muro, la diffusione degli strumenti informatici, ha reso ormai obsoleti questi modelli organizzativi. Non a caso, il giornalista britannico Jason Burke (2003), nello spiegare il modus operandi e l’ideologia di Al Qaeda, iniziasse il suo libro con la frase “Al Qaeda non esiste”. Questa affermazione, tranchant e provocatoria allo stesso tempo, serviva a spiegare come ci trovassimo di fronte a una galassia di gruppi pulviscolari, se non individuali, privi di una direzione sinottica, animati dalla comune matrice ideologica, che usavano il nome Al Qaeda come un vero e proprio brand, alla stregua delle firme più all’avanguardia della moda.

Mark Hamm (2006), analizzando gli attentatori islamici e suprematisti bianchi attivi negli USA sin dagli anni Novanta, evidenzia come ci si trovi di fronte a un processo di privatizzazione del terrorismo, con gli attentatori che vengono indottrinati e addestrati (o si auto-indottrinano e addestrano) sul web e compiono crimini ordinari, come furti e rapine, per procacciarsi le armi e i fondi necessari. Altri autori (Ruggiero, 2019), parlano di network terroristi, più che di organizzazioni, suffragando le loro ipotesi da analisi accurate della realtà. Gli attentati di Parigi del 2015, di Dhaka e Berlino del 2016, di Londra del 2017, mostrano l’obsolescenza del modello organizzativo prefigurato dai giudici torinesi e dalla Cassazione, ai quali non chiediamo di confrontarsi con la letteratura criminologica, ma, quantomeno, di andare a guardare le inchieste condotte dai loro colleghi di altri paesi per aggiornarsi sui fenomeni di violenza politica.  Infine, considerato che si tratta di anarchici, quindi di gruppi politici fisiologicamente refrattari a modelli organizzativi particolarmente sofisticati, la tesi dell’organizzazione criminale si dimostra ancora più caduca.  Fa specie constatare che, a 53 anni dalla tragedia di piazza Fontana e della morte di Pino Pinelli, le piste anarchiche continuano ad affascinare polizia e magistratura italiana.

Eppure, e questo è il secondo punto che vorremmo sollevare, la magistratura italiana si mostra ancora oggi incagliata tra le sabbie del cospirazionismo. In parte sarà la sub-cultura cattolica, che porta a rappresentare il male come il prodotto di una mente criminale che irradia dall’alto in basso tutti quelli che ricadono nel suo raggio d’azione, fino a contaminare un’opinione pubblica indefessamente alla ricerca, dopo 45 anni, del Grande Vecchio responsabile di tutte le azioni terroristiche degli anni Settanta. Malgrado le confutazioni del Teorema Calogero, la magistratura italiana non ha imparato appieno la lezione, fino a prefigurarsi l’esistenza di una pericolosa organizzazione anarchica con un capo da spedire al 41 bis malgrado l’inesistenza di prove a suo carico. Un bersaglio troppo facile da individuare, in quanto già condannato e autore di un altro attentato, che pure non ha danneggiato niente e nessuno.

La ragione principale, a nostro giudizio, va rintracciata anche in un altro aspetto della storia italiana contemporanea. Sin dal 1992, la magistratura italiana è assurta a vero e proprio regolatore dei rapporti sociali, fino a sviluppare delle proiezioni a livello politico. I 5 Stelle, ma anche settori dell’attuale maggioranza, hanno fatto propri lo zelo repressivo per acquisire crediti elettorali e politici. Alla lunga, ne è scaturito un eccessivo scollamento tra magistrati e paese reale, coi primi che, dall’alto delle loro prerogative, forti del consenso mediatico, in nome di una legalità sempre più arbitraria, si sentono in diritto di intervenire pesantemente su settori nevralgici della vita democratica come la libertà di riunione, di associazione e i diritti e le garanzie del sistema penale.

Infine, ci preoccupa l’applicazione ai danni di Cospito di reati risalenti al periodo fascista, come quella dell’attentato alla personalità interna dello Stato, un’imputazione che, per esempio, non venne mai utilizzata contro i neofascisti imputati nelle stragi di Stato. A parte il fatto che le conseguenze dell’attentato non hanno procurato danni o vittime, attribuire, nel 2022, una personalità interna a un apparato sempre più scollato e frammentato, non all’altezza di interpretare una società sempre più plurale e complessa, suona come un elemento sempre più distonico nel contesto contemporaneo. A meno che alcuni magistrati, al fine di stabilire una relazione positiva con la neonata maggioranza di governo, non tentino di anticiparne o di assecondarne le tendenze e le aspettative in materia di dissenso politico. In tal caso, vorremmo ricordare loro il Leonardo Sciascia de Il Cavaliere e La Morte, quando evidenziava come gruppi o organizzazioni presuntamente terroristiche diventano tali quando lo Stato attribuisce loro questa definizione. Sperando che sia un monito utile.

REFERENZE

Burke, J. (2003), Al Qaeda. La vera storia, Feltrinelli, Milano

Hamm, M. (2014), Terrorism as Crime, New York University Press, New York.

Ruggiero, V. (2019), Organized Crime and Terrorist Networks, Routledge.