Pubblichiamo un commento di Giulia Fabini (Università di Bologna) e Caterina Peroni (Università di Padova) sul recente arresto del sindaco di Riace, Mimmo Lucano, che dal punto di vista della criminologia critica solleva interrogativi riguardo ai meccanismi di criminalizzazione della solidarietà e l’intersezione di razzismo e sessismo (e classe) nel regime dei confini. Buona lettura!

Sul caso Riace: la violenza dei confini e i confini della violenza

di Giulia Fabini e Caterina Peroni

Il 3 ottobre di cinque anni fa segna il drammatico naufragio di 366 persone a poche miglia da Lampedusa, seguita a pochi giorni di distanza da un’altra strage, quella di altri 268 morti annegati nel Mediterraneo, tra cui 60 bambini. Sono le grandi catastrofi che hanno convinto l’Italia, mossa a sdegno rispetto a morti ingiustificate, a mettere in atto l’operazione Mare Nostrum, che salverà almeno 100.000 persone  e durerà fino al 31 Ottobre 2014, quando verrà sostituita dall’operazione Triton di Frontex  – operazione che aveva ben altro intento (proteggere i confini, non salvare le vite umane).

Sono più di 15.000  (dati UNHCR) i morti nel Mediterraneo tra il 2014 e il 2018 e molti i naufragi di cui si è avuta notizia, con sempre meno orrore da parte della opinione pubblica. Chi le chiama tragedie mente consapevolmente. La tragedia accade, mentre queste stragi sono effetto voluto di scelte politiche ben precise, ed hanno dei colpevoli: dai governi che si sono succeduti negli ultimi trent’anni, iniettando nella società ondate di panico morale contro gli e le straniere, ai piccoli burocrati che si limitano, appunto, ad eseguire la legge con ignavo zelo  – sì, eseguire, come un ordine, perché è sull’esecuzione della legge come ordine superiore che il nazismo ha trovato un alibi collettivo, ed è così che anche oggi la banalità del male si diffonde inesorabile.

Criminalizzare la solidarietà

Campi di confinamento e deportazione, tratta di esseri umani, torture, stragi. Al di là della rimozione collettiva di ciò che sta avvenendo sotto ai nostri occhi, come criminologhe e criminologi critici ci poniamo con urgenza la domanda su, o meglio sarebbe dire la denuncia di come sia stata possibile e sia avvenuto lo slittamento giuridico ed etico che ha portato a rovesciare il senso di giustizia e di solidarietà in crimine da perseguire, e trasformare chi lo applica in criminale da perseguitare.

Da https://www.nuovatlantide.org/montagne-solidali-tra-italia–francia-la-solidarieta-non-e-un-crimine/

In questo quadro leggiamo le operazioni giudiziarie che hanno colpito le ong, con sequestri (pensiamo alla Iuventa) e indagini (pensiamo alla Open Arms) che si sono concluse in un nulla di fatto – l’accusa di collusione con i trafficanti da parte della Procura di Palermo – o che sono ancora aperte – l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina della Procura di Catania. Quel processo di criminalizzazione di chi salva le vite in mare (quasi la metà dei salvataggi erano opera delle imbarcazioni delle ong nel 2017, prima della stretta, ricordiamocelo), secondo le accuse solo per profitto, rappresenta un ribaltamento del discorso, che vede la causa delle morti in chi salva i migranti in mare, e non in chi li costringe a emigrare prendendo la via del Mar Mediterraneo senza alcuna tutela. Ribaltamento del discorso che è sdoganamento del razzismo di stato, e che permette al ministro dell’interno[1] di trattare dei e delle richiedenti asilo come rifiuti poco più che inumani, non persone, ma per 10 giorni oggetti di ricatto alle istituzioni europee;  di chiudere i porti e decretare così un innalzamento delle morti nel Mediterraneo fino a 1 morto o disperso ogni 5 attraversamenti negli ultimi 4 mesi (dati recentemente diffusi dall’istituto ISPI); di non condannare con forza gli episodi di aggressioni xenofobe e razziste (vedi Traini e le reazioni a quell’episodio) che sembrano sempre più trovare cittadinanza in questo paese.

Tutto ciò pone le fondamenta della costruzione dell’ossimoro del reato di solidarietà. Un reato che insegue chi si mette in gioco per salvare vite non solo dalle acque internazionali, ma anche ai confini di terra, come è avvenuto a Ventimiglia con il divieto di dare cibo ai migranti in transito e i fogli di via ai solidali; come a Roma, con gli sgomberi delle occupazioni abitative di migranti – molti col “titolo” di rifugiati/e, a cui lo Stato non garantisce nulla, solo per citarne alcuni. E come è avvenuto, fatalmente nella settimana dell’anniversario della strage di Lampedusa, al sindaco di Riace, noto in tutto il mondo per aver realizzato un modello di accoglienza coraggioso e innovativo, messo agli arresti domiciliari con l’accusa di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” e affidamento fraudolento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti.

In questo contesto di criminalizzazione della solidarietà e panico morale riversato contro gli e le straniere, e a poco più di una settimana dall’approvazione al governo del Decreto Salvini, vogliamo riportare l’accento sul baratro che si apre tra diritto e giustizia quando soffia il vento populista, e su quanto il sistema della giustizia criminale possa fungere da potentissimo sistema di controllo e di distrazione, fondato sul potere di produrre la criminalità  stessa definendo e stigmatizzando come criminali comportamenti e soggetti che non si adeguano allo “Stato” delle cose. Bisogna sempre andare a cercare “il sangue seccato nei codici”; andare a vedere quale guerra si sta combattendo sotto l’apparente imparzialità della legge. Riconoscere  la normalizzazione della violenza in pratiche quotidiane e burocratiche che ripetute nell’indifferenza da tutte e tutti, compongono l’orrore.

Ciò che appare evidente fino a qui, è che è la ratio che sottende il cosiddetto “modello Riace” di accoglienza ad essere presa di mira con questa clamorosa manovra, più che il modello stesso: vale a dire, la possibilità che sotto alla luce del sole vi sia chi deliberatamente si oppone e utilizza il proprio potere e il proprio ruolo per praticare il diritto alla disobbedienza di leggi ingiuste. Come si legge nel comunicato stampa della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Locri:

“Particolarmente allarmanti si sono rivelate non solo la lunga serie di irregolarità amministrative e di illeciti penalmente rilevanti che costellavano la realizzazione del progetto, ma anche e soprattutto l’estrema naturalezza con la quale il Lucano e la sua compagna si risolvevano a trasgredire norme civili, amministrative e penali”

Posta quindi la gravità del processo di criminalizzazione in atto, vorremmo aprire un altro ragionamento legato a questa vicenda. Come oramai noto, le accuse più gravi (associazione a delinquere, truffa, concussione tra le altre) sono cadute, e rispetto a queste il giudice dell’ordinanza denuncia la carenza o assenza di prove e la inadeguatezza praticamente di tutto l’impianto accusatorio. Rimangono confermate le accuse di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” e “affidamento fraudolento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti”.  Ci interroghiamo sulla prima, che apre alcune zone d’ombra dell’inchiesta e del regime dei confini tout court

Che genere (e che razza) di confini sono questi

Posto che il “reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina” rappresenta la trasfusione nel codice penale del reato di solidarietà, la condotta che nello specifico viene contestata è la pratica del matrimonio “di comodo” tra un cittadino riacese e una donna a cui era stato negato tre volte il diritto di asilo. A leggere tutta l’ordinanza di Riace (resa disponibile sul sito di Questione Giustizia, qui), emerge una situazione non lineare e comunque di grande difficoltà, dove l’unica possibilità rimasta ad una donna cui era stata negata la protezione per tre volte ed era stato quindi negato il rinnovo del permesso di soggiorno, era quella di sposarsi con un cittadino riacese per ottenere il permesso di soggiorno. Una pratica, quella del “matrimonio di comodo” o “matrimonio solidale”, che di certo non è nuova ad una parte del mondo dell’associazionismo, e che è solitamente utilizzata per forzare le maglie asfittiche della normativa sull’immigrazione, permettendo alle e ai migranti non provenienti dai paesi del Nord globale di ottenere la residenza e i diritti di cittadinanza che altrimenti sarebbero loro preclusi, non esistendo per loro alcun accesso legale al nostro paese se non attraverso il riconoscimento della protezione internazionale o umanitaria. Che d’altronde si sta dimostrando un istituto sempre più restrittivo, (i dinieghi nell’anno 2017 sono stati 42.700, 52,4% del totale delle domande, percentuale che prima del 2015 si attestava intorno al 30-40%), legato com’è alla discrezionalità burocratica politica delle commissioni territoriali per il riconoscimento dello status di protezione internazionale. Nel paradigma umanitario, i e le richiedenti asilo sono dunque ridotti sistematicamente a soggetti in custodia, vittimizzati, mai pienamente liberi.

Alcuni mass media e social network si sono concentrati però su alcuni stralci delle intercettazioni che disvelano ciò che sembra essere un tabù: il rischio di ricatto sessuale sotteso al matrimonio “solidale”. Infatti, i discorsi che nelle intercettazioni si susseguono riguardano la richiesta da parte di un settantenne riacese di uno scambio sessuale nei confronti della trentenne nigeriana, a fronte della messa a disposizione del proprio privilegio di cittadino italiano. Ricatto di cui, secondo le accuse in alcuni social, e comunque smentite dall’ordinanza, Lucano sarebbe stato complice.

Dalle trascrizioni delle intercettazioni però emerge un quadro molto più complesso, come in effetti spesso è la realtà, in cui lo spazio di negoziazione tra la donna, il “pretendente” e l’amministrazione non è cristallizzato, ma in forte tensione, e in cui gli attori mostrano di giocare il loro ruolo con grande consapevolezza. Vi si legge uno sbilanciamento di potere enorme – come può essere quello tra chi ha la cittadinanza e chi no, o tra chi è cittadino bianco e chi è donna migrante a cui è stato negato per tre volte il diritto di asilo –, la violenza maschilista, patriarcale e coloniale dell’uomo bianco che – forse – dà per scontato che il corpo della donna nera sia a sua disposizione, e pretende che lei accetti e sia grata della concessione che l’uomo bianco le può fare – vale a dire, il diritto di restare. Vi è la difficoltà di un sindaco che ha fatto della solidarietà e dell’autonomia delle e dei migranti la sua bandiera, che legge il rischio del ricatto, e lo sottopone più volte alla donna. E che comunque non celebra il matrimonio. Vi è inoltre la determinazione di lei ad accettare di pagare questo scotto a fronte della vita che già fa – ma si tratta pur sempre di intercettazioni giudiziarie, piene di omissis, decontestualizzate, per cui forse stiamo facendo solo delle congetture voyeuristiche che dovremmo evitare.

Quello che ci sentiamo di dire a poche ore dalla pubblicazione delle intercettazioni e dell’esplosione del “caso” Riace, è che, nella evidente iniquità dei rapporti di potere inscritti nel corpo di una donna straniera non bianca e senza documenti, emergono due ordini di questioni: la prima riguarda la natura dello strumento del matrimonio e il rischio sotteso al suo essere, sempre, un contratto sessuale in cui è il corpo della donna ad essere merce di scambio; la seconda è quella che potremmo chiamare rischio della prostituzione forzata: quanto la donna che si dice avrebbe potuto accettare scambi sessuali può essere considerata libera in quello scambio? Quanto possiamo considerare tale scambio in quanto strumento di emancipazione a disposizione della donna? Quanto questa donna era libera di usare o meno tale strumento? Non volendo schiacciare il discorso nella facile criminalizzazione o vittimizzazione dei soggetti in campo, vogliamo però interrogarci su quanta libertà davvero avesse quella donna di usare anche questo strumento di emancipazione, o quanto fosse costretta a farlo a causa del regime dei confini.

Siamo convinte che le leggi ingiuste debbano essere contrastate con ogni mezzo a disposizione, ma il corpo e la libertà delle donne non possano mai far parte di “ogni mezzo a disposizione” per contrastare la legge ingiusta, non contro la volontà della donna.

Nel ricordare che in questa mobilitazione per la disobbedienza civile al razzismo di Stato, il suo nesso costitutivo con il sessismo non deve mai cadere in secondo piano, ci uniamo a tutte e tutti colori che sono disposte/i a mettere in gioco il loro privilegio, la loro cittadinanza e il loro coraggio per opporsi alla necropolitica nel capitalismo contemporaneo.

Note

[1]    Ministro di un partito che a giugno 2018 ha votato contro a una ridefinizione del sistema Dublino che, sebbene non perfetto, avrebbe permesso la redistribuzione dei richiedenti asilo nel territorio, anche in base allo loro volontà (elemento troppe volte trascurato).


Per citare questo post

Peroni C. e Fabini G. (2018), “Sul caso Riace: la violenza dei confini e i confini della violenza”, Studi sulla questione criminale online, consultabile al link: https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2018/10/05/sul-caso-riace-la-violenza-dei-confini-e-i-confini-della-violenza-di-giulia-fabini-universita-di-bologna-e-caterina-peroni-universita-di-padova/